La città smarrita di Marcovaldo

Quando inizia un nuovo anno si spera sempre che sia migliore del precedente. Felice anno nuovo, si dice, come se alla mezzanotte del 31 dicembre si chiudesse una vita e ne cominciasse un’altra. Per un attimo ci sentiamo come se fossimo davanti a una pagina bianca tutta da scrivere. Proprio come Marcovaldo quando una mattina d’inverno, svegliandosi trova la città coperta di neve.

La città invisibile

Siamo nella quarta novella che compone Marcovaldo. Ovvero le stagioni in città, opera di Italo Calvino pubblicata da Einaudi nel 1963. Il titolo del racconto è La città smarrita nella neve. Infatti dopo la nevicata notturna, della città di Marcovaldo restano solo alcune linee mezze cancellate.  Il panorama è così diverso dal solito che il protagonista — dotato di un connubio di ingenuità e fantasia fuori dal comune — dubita che sotto il manto bianco ci sia la città di sempre. Pensa che possa essercene un’altra, o addirittura nessuna. Si chiede: «Chissà se sotto quei monticelli bianchi c’erano ancora le pompe della benzina, le edicole, le fermate dei tram o se non c’erano che sacchi e sacchi di neve?».

E allora — in un silenzio fatto di suoni attutiti dallo spazio imbottito e nel contesto di una luce differente da quella di tutte le altre ore del giorno — sogna di perdersi in una città diversa. Un luogo fantastico dove si può camminare in mezzo alla strada perché il confine con il marciapiede non esiste più e i veicoli non possono viaggiare. E anche se a ogni passo affonda mezza gamba e si sente penetrare la neve nelle calze, Marcovaldo è felice. Non si è mai sentito così libero. Per lui la neve è un po’ come la siepe in L’infinito di Leopardi: limita la vista e apre le porte all’immaginazione. 

La gabbia di muri

Presto però l’illusione generata dalla città sepolta si scontra con il grigiore della realtà che sopravvive negli interni: «varcata la soglia, il manovale si stupì di ritrovarsi tra quelle mura sempre uguali, come se il cambiamento che aveva annullato il mondo di fuori avesse risparmiato solo la sua ditta». L’azienda SBAV compare spesso nel libro e rappresenta la logica cinica e utilitaristica dei tempi moderni. È la concretizzazione della «gabbia di muri» che imprigiona la vita di Marcovaldo e che la neve annulla. Se nel racconto l’indeterminatezza del paesaggio innevato ha un valore positivo, il perimetro della ditta, le sue regole ferree e la sua mentalità tesa a rendere tutto quantificabile non possono che avere una valenza negativa. Sono spia di un’aridità di sentimenti che mina la sopravvivenza del bambino che sta in ogni uomo.

Se quel bambino svanisce, con lui sparisce anche la capacità di immaginare. Allora anche la neve perde la sua magia, diventa una mera occasione di guadagno. Come accade per Sigismondo, che anche se non lavora alla SBAV ne condivide pienamente lo spirito. «Anche il disoccupato Sigismondo era pieno di riconoscenza per la neve, perché essendosi arruolato quel mattino tra gli spalatori del comune, aveva davanti finalmente qualche giorno di lavoro assicurato. Ma questo suo sentimento, anziché a vaghe fantasie come Marcovaldo, lo portava a calcoli ben precisi su quanti metri cubi di neve doveva spostare per sgomberare tanti metri quadrati; mirava insomma a mettersi in buona luce con il caposquadra; e – segreta sua ambizione – a far carriera». 

Forme nuove

Inizialmente Marcovaldo e Sigismondo si pestano i piedi perché l’uno è incaricato di spalare neve dal marciapiede e l’altro dalla strada. Alla fine trovano un accordo e quando sia il marciapiede che la strada sono sgomberi arriva la macchina spazzaneve che ricopre tutto di bianco. Ma questa volta il protagonista non si limita a ridisegnare il paesaggio con la mente. Agisce, costruisce dei muretti che tracciano strade conosciute solo a lui e sconosciute a tutti gli altri. Fa perfino una copia identica della macchina coperta di neve del presidente del consiglio d’amministrazione, tanto che il proprietario non riesce a distinguerla dall’originale.

L’obiettivo è «rifare la città, ammucchiare montagne alte come case, che nessuno avrebbe potuto distinguere dalle case vere. O forse ormai tutte le case erano diventate di neve, dentro e fuori; tutta una città di neve con i monumenti e i campanili e gli alberi, una città che si poteva disfare a colpi di pala e rifarla in un altro modo». Solo che a un tratto un imprevisto fa sì che anche Marcovaldo venga investito dalla neve e diventi a sua volta una copia.

Un’illusione fragile

Nel cortile della ditta un carico di neve gli piomba addosso e i ragazzini del quartiere non lo distinguono più dal pupazzo di neve che hanno appena modellato. Ritrovandosi sotto la neve Marcovaldo ne scopre l’aspetto materico: il freddo gli penetra nelle ossa e ha tutta la durezza della realtà. Capiamo che la magia della neve sta tutta nel suo aspetto visivo, nella distanza che la separa dall’osservatore. È un’illusione talmente fragile che basta uno starnuto a spazzarla via e far riemergere il paesaggio monotono e ostile di tutti i giorni. E così alla fine Marcovaldo si ritrova nel cortile di sempre, con i suoi muri grigi e le odiose casse del magazzino.

Ma se anche questa novella si conclude con l’amara constatazione che nessuna illusione può sottrarre l’uomo dalla realtà, il finale della raccolta ci dice che la capacità di immaginare non genera una realtà finta, ma rappresenta il completamento di quella sensibile. Perché solo chi, come Marcovaldo, è capace di guardare il mondo con gli occhi del cuore può distinguere il leprotto bianco in una distesa di neve bianca come una pagina vuota.

Foto di TanteTati da Pixabay

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