Intervista al collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura: “Mi sento prigioniero dello Stato”

bonaventura“Mi sento prigioniero dello Stato”, questo è ciò che dichiara il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura, ex “Boss” della ‘ndrangheta, che dal 2007 è entrato nel Programma di protezione dello Stato.

La sua è una storia che si tramanda: Luigi fa parte della prima famiglia della ‘ndrina crotonese, i Vrenna Bonaventura, che da 60 anni dominano il territorio dedicandosi alle estorsioni, al traffico di droga e altri reati.

Simona Mazza: Luigi raccontami in breve la tua storia di “predestinato”.

Luigi Bonaventura: Sin da bambino ho respirato l’aria della malavita e dell’omertà. Facendo parte della famiglia più importante, ero destinato a diventarne erede, per diritto di successione. Sono stato così cresciuto con la dottrina e con la filosofia della ‘ndrangheta e soprattutto sono stato addestrato nel fisico e nella psiche, per diventare un “bambino-soldato”.

S. M Quando hai impugnato un’arma per la prima volta?

L. B Il mio primo ricordo risale a quando avevo 10 anni. Quel giorno lasciai il pollice dietro al carrello della pistola e me lo slogai. Ricordo benissimo che avevo raggiunto l’età con due cifre. Sicuramente però avrò iniziato da prima.

S. M Tuo padre era un uomo d’onore, dunque tu automaticamente saresti diventato un reggente. Che cosa è successo per indurti a deviare dai precetti della ‘ndrangheta?

L. B A dire il vero, mio padre aveva sposato una donna per amore, quasi un tabù per la malavita, che cerca sempre di combinare i matrimoni per garantire la continuità malavitosa. Lei veniva da una famiglia che era l’esatto contrario della mafia ed è riuscita a mettere dei “mattoncini” di buono nella mia famiglia.

S. M Che cosa provavi ad essere il rampollo di una famiglia d’onore?

L. B Non provavo certo sentimenti positivi. Quando cominci a capire chi sei, conosci la paura e se non la domini finisci per impazzire. Una volta esorcizzata, cominciai ad andare in giro nei quartieri e chiedevo chi fosse il “capo”, dopodiché dicevo che da quel momento, sarei stato io a comandare.  Questa era “Mafia” e non lo sapevo!

 S.M. Hai detto che tua madre ha messo dei “mattoncini” di buono nella tua famiglia, tuttavia tu hai continuato per un certo tempo a perseverare. Come sei arrivato al pentimento? C’è stata un’altra figura-chiave che ti ha istillato altre dosi di “buono”?

L. B. Una figura c’è: si tratta di mia moglie. L’ho conosciuta a 13 anni, l’ho rivista dopo tanto tempo e l’ho sposata (non avevo ancora la reggenza). Anche lei, come mia madre, proveniva da una famiglia che non aveva niente a che vedere con la ‘ndrangheta. Nel 2001 abbiamo avuto il nostro primo figlio, Salvatore e nel 2004 è nata la femminuccia. Con il tempo mi sono reso sempre più conto che, anche se non crescevo i miei figli educandoli alla violenza, involontariamente inculcavo loro i pensieri della ‘ndrangheta.

S. M Come sei arrivato dunque al pentimento?

L. B Nel 2005 passai diverse notti a camminare per il corridoio, mentre i miei figli dormivano con mia moglie. Realizzai che, in barba al libero arbitrio, avevo già tracciato il loro destino. Un destino fatto di morte, galera e aule bunker. Cominciai a chiedermi, dove stava “l’onore” tanto decantato dai boss e mi resi conto che non era questo ciò che volevo per i miei figli, né per i figli degli altri.

S. M Di cosa ti occupavi in quel periodo?

L. B Avevo varie attività di ristorazione e agenzie che si occupavano dell’organizzazione di eventi e servizio d’ordine. Era un modo per far vedere che ero una persona tranquilla, ma al tempo stesso lavoravo sotto copertura.

S. M Nel 2005 è arrivato il pentimento. In che modo hai comunicato la scioccante notizia alla tua famiglia?

L. B E’ stata un’impresa assai difficile. Io non volevo tradire mio padre, però cercai di fargli capire cosa avevo maturato: ovvero che l’onore e la ‘ndrangheta non hanno niente in comune.

S. M Quali sono state le reazioni della famiglia?

L. B Hanno cominciato a minacciare me, dicendo che avrebbero ucciso mia moglie e i miei figli. Il 6 aprile 2006, durante una perquisizione ho rinnovato a Morabito, Strada e l’ispettore Eugenio Lucente della Questura di Crotone, la volontà di uscire dal giro, ma non sapevo da che parte iniziare. Angelo Morabito all’epoca era il commissario capo e vice questore, oggi è dirigente a Gioia Tauro; Franco Strada era un importante ispettore della mobile che all’epoca svolgeva servizio nella DIA.

Nel 2005 avevo chiesto anche il parere del magistrato della Corte d’Appello di Reggio Calabria, Staglianò, (all’epoca ex procuratore capo di Crotone), così nel 2007 cominciai a collaborare con la giustizia.

Preciso che all’epoca non avevo neanche un giorno di condanna. La mia collaborazione è iniziata con il pm antimafia Pierpaolo Bruni e da allora collaboro con 10 Procure, oltre che con la direzione antimafia. Bruni e gli altri magistrati sono l’unica “Essenza di Stato” che ho respirato ad oggi.

S. M Qualche giorno fa sei stato vittima di un triste “equivoco”, se così si può definire. Potresti raccontarci cosa è accaduto?

L. B Avevo partecipato ad un convegno sulla legalità a Brescia, insieme all’avvocato Ruggero Romanazzi e al termine ero tornato in albergo. Alle sei e venti del mattino, si sono presentato un paio di poliziotti, che mia hanno parlato dell’esistenza di un mandato di cattura nei miei confronti, per via della mia latitanza.

In realtà io ero stato latitante nel 2003 ma poi era finito tutto, tanto che nel 2006 ero stato arrestato per altri motivi. Ho cercato di far capire ai poliziotti, anche attraverso il web e le notizie che si potevano trovare, che ero un uomo libero, ma uno di essi insisteva nel volerci vedere chiaro. Tutto questo si è protratto fino alle 8,20, quando è arrivata un’altra pattuglia e sono stato trasferito in Questura.Verso le nove si sono presentati anche l’avvocato Romanazzi e il presidente dell’antimafia di Brescia Arthur Cristiano, che chiedevano la mia liberazione.

Dopo vari accertamenti, è stato finalmente sentito un magistrato e sono stato rilasciato (alle undici.)

Dal verbale che mi hanno consegnato, risultava che avevano proceduto perché era attivo un mandato di cattura nei miei confronti.

S. M Si potrebbe dire”Tutto bene quel che finisce bene”: Le forze dell’ordine non avevano ricevuto gli aggiornamenti di legge circa la tua condizione di uomo libero, ma tu sei arrabbiato. Perché?

L. B La cosa che più mi ha disturbato è che la Questura di Brescia ha cercato di liquidare tutto dicendo che non ero stato arrestato, mentre il verbale riporta”si è proceduto all’arresto del nominato in oggetto ai sensi dell’ex art. 349 cpp, in quanto a carico dello stesso, a seguito di controlli tramite il sistema d’indagine, risultava attivo un provvedimento di cattura da eseguire”. La situazione creatasi è stata imbarazzante per me, ma su tutto m’indigna fortemente la smentita della notizia del mio arresto, contro ogni evidenza del verbale, anche perché così si confonde l’opinione pubblica..

S. M Chi ha la responsabilità di tutto ciò, secondo te?

L. B La colpa non è delle Forze dell’Ordine, né di chi ha eseguito il mandato, ma del Ministero che non ha provveduto ad aggiornare la mia situazione legale.

S. M Qualcuno ti ha chiesto scusa per l’accaduto?

L. B No, non sono arrivate le scuse né dal viceministro dell’Interno Bubbico, né da Alfano, neanche in forma privata. L’unica notifica che mi è arrivata è che ho l’obbligo di avvertire le Forze dell’Ordine quando mi sposto. Preciso che avevamo inviato un fax alla Questura in cui si avvertiva della mia partecipazione all’evento.

S. M Ritengo che sia giusto, dal momento che fai parte del Programma di Protezione dello Stato, o non è così?

L. B Ci sarebbe molto da dire in proposito. Ebbene il contratto di protezione è scaduto da due anni e non mi è stato rinnovato, perché non è arrivata alcuna proposta prima della scadenza. Già nel gennaio del 2012 e lo scorso aprile avevo mandato una lettera di diffida, dicendo che avrei voluto rinunciare al programma, anche perché, di fatto, non esiste un programma di protezione valido. Io vivo in una località protetta a Termoli, non ho mai avuto la scorta, tranne quando vengo chiamato a testimoniare, nonostante riceva quotidianamente minacce di morte. Ed è per questo che dico “Mi sento prigioniero Sono un collaboratore senza contratto “.

S. M Che cosa hai chiesto allo Stato?

L. B Ho chiesto di avere una scorta e di essere protetto in maniera adeguata o in alternativa, di uscire dal programma.

S. M Che risposte hai avuto?

L. B Ad oggi nessuna, nessuno mi ha risposto. Anche un mese fa ho scritto a Bubbico e ad Alfano per avere risposte, ma non c’è verso di averne.

S. M Mi risulta che tu abbia avuto dei segnali positivi solo dal Generale Pascali, il direttore del Servizio centrale di protezione di Roma, ovvero l’ufficio che gestisce i nuclei nop delle varie regioni E’ così?

L-B Sì. Lui mi è sembrato da subito una brava persona. Dopo il nostro incontro mi ha dato ragione su tutto e mi ha spiegato che in Italia non solo al sicuro, dal momento che collaboro con 10 procure e che devo essere trasferito all’estero. Dopo una settimana ho ricevuto un verbale di comunicazione su cui erano evidenziati alcuni Paesi che mi avrebbero potuto ospitare, il tutto in attesa di un accordo bilaterale fra gli Stati. Ad oggi tuttavia non ho avuto ulteriori notizie e in tutto questo tempo sono sempre stato abbandonato e senza scorta, sebbene abbiano riconosciuto che sono talmente in pericolo da dover essere trasferito fuori dall’Italia.

S. M In questo caso a chi dai la responsabilità?

L. B La responsabilità è della politica perché non offre gli strumenti adeguati per garantire un programma di protezione giusto. Chi sguazza in tutto ciò sono i pesci piccoli che vengono pagati ed aiutati nel quotidiano, mentre i collaboratori seri sembra quasi che siano scomodi agli occhi dello Stato.

di Simona Mazza

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