Il tempo dell’anima: elogio dell’ozium tra le pieghe d’agosto

il tempo

Agosto sospende il frastuono del mondo e restituisce il tempo — non quello dell’orologio, ma quello interiore. È in questo spazio rarefatto che si affaccia, quasi in punta di piedi, la possibilità di riscoprire l’ozium: non fuga dalla realtà, ma atto profondamente umano di sottrazione dal rumore del negozium

Il battito lento di agosto

C’è qualcosa di miracoloso nel modo in cui agosto riesce, almeno in apparenza, a rallentare il battito del mondo. Le mail tardano ad arrivare, le segreterie telefoniche si riempiono di messaggi rimandati, e anche le nostre città — pur non essendo più deserte e roventi come qualche decennio fa — si svuotano quel tanto che basta per aprire spiragli di cielo fra le agende e gli ingorghi. È come se il tempo si stropicciasse gli occhi, prendesse fiato, si concedesse finalmente di non dover coincidere con la produttività. Ma cosa accade davvero in questo spazio interstiziale che chiamiamo “vacanza”? E soprattutto, cosa ci accade?

Ozium vs negozium: il gioco serio della pausa

I Romani, con quella sapienza apparentemente pragmatica ma profondamente metafisica, avevano parole chiare per definire il dilemma: ozium e neg-ozium. La seconda è negazione della prima. Il negozium è il tempo degli affari, delle trattative, degli impegni che ci vincolano all’esterno di noi. L’ozium, al contrario, è il tempo sottratto al dover fare: un tempo “vuoto” solo per chi non sa vedere.

Ma in realtà, come ben sapevano Seneca e Cicerone, questo momento sospeso non è affatto vuoto: è densissimo. È il tempo in cui si scrive, si medita, si legge, si contempla, si torna a essere. È ciò che permette all’uomo di riconciliarsi con se stesso e col mondo.

Tuttavia, viviamo in una società che sospetta dell’ozium. Come mai?

Contro la dittatura della performance

Forse perché l’ozium sfugge al controllo. Non si misura, non si contabilizza, non genera utili visibili. Chi non ha “niente da fare” — cioè chi non ha appuntamenti, scadenze, consegne, conference call — appare come un’anomalia nel flusso iperattivo della modernità: “Sta sprecando il suo tempo”, si pensa. Tuttavia, in quel tempo “sprecato” può maturare una forma più profonda di attenzione, quella che non corre dietro all’urgenza, ma si rivolge all’essenziale.

A conti fatti, il sospetto nei confronti dell’ozium nasce da un paradigma che riduce l’esistenza a prestazione. L’individuo è tanto più valorizzato quanto più è visibile, attivo, interconnesso. L’homo consumens contemporaneo è spinto a produrre, documentare, partecipare, rendicontare. Fermarsi significa smettere di contare — e quindi, per molti, smettere di esistere.

Eppure l’ozium, nel suo senso classico, era tutto fuorché inerzia: era studio, contemplazione, esercizio dell’anima. I grandi momenti del pensiero sono nati proprio nel margine silenzioso dell’azione. Epicuro nel suo giardino, Agostino nel ritiro africano, Montaigne chiuso nella torre della sua biblioteca, Nietzsche tra i sentieri alpini: non erano “fermi”, ma radicalmente immersi. Nessuna vera intuizione nasce nel rumore della connessione continua.

In fondo, è lo spazio in cui la mente si raccoglie, l’io si decanta, il tempo si dilata. Non è evasione, ma resistenza. È un atto quasi sovversivo in una civiltà che ha smarrito il senso del vuoto creativo, dell’attesa, del silenzio.
Per questo oggi è più necessario che mai.

Ozium come spazio mentale

Ed è proprio in questo tempo sospeso che l’ozium mostra la sua natura più profonda: quella di spazio mentale. C’è n’è uno esteriore, fatto di pomeriggi lenti, di pagine sfogliate sotto l’ombra, di camminate disordinate, di cicale e mare. Ma c’è soprattutto un ozium interiore: quella condizione in cui la mente si sgrava da ciò che è superfluo, si riordina, comincia a vedere.

Non è un caso che molte persone, durante l’estate, sentano improvvisamente il bisogno di fare bilanci. Agosto, più che dicembre, è il vero capodanno dell’anima. Forse perché, liberi dalla stretta degli obblighi quotidiani, riusciamo a guardarci senza schermi, a sentire — anche solo per pochi giorni — chi siamo diventati e dove stiamo andando.

Il tempo che ci fa essere

A ben guardare, dunque, questo momento di pausa è più di un’occasione di riflessione: è il tempo che ci fa essere. In latino, esse è “essere”, ma anche “esistere”. L’ozium, nel suo nucleo più profondo, è ciò che ci permette di esse: non di fare, non di sembrare, non di apparire. Di essere, e basta.

Paradossalmente, è proprio nel non-fare che possiamo tornare a desiderare. Perché il desiderio autentico — quello non imposto dall’esterno — non nasce nel rumore, ma nel silenzio. L’inattività è allora la premessa del desiderio, la condizione che lo rende possibile. Senza desiderio, nessuna azione ha senso; senza ozium, nessun desiderio è autentico.

Prendersi il tempo, restituirsi a sé stessi

Ecco perché agosto non è (solo) un mese di partenze, ma di ritorni. Ritorni a sé. Rallentare, disobbedire — gentilmente — alla frenesia, riconoscere che non siamo nati per il negozium perpetuo.

Riscoprire il “dolce far nulla” non significa sottrarsi alla vita, ma prepararsi a viverla meglio. Significa, con la libertà di chi ha capito qualcosa, guardare l’orologio e decidere che — per una volta — non sarà lui a decidere per noi.

Perché, come diceva Seneca, “nihil minus in otio quam otiari “— «nulla è meno ozioso dell’ozio»: non c’è niente di più serio, di più denso, di più fertile.

E se per caso oggi siete su una spiaggia, in una piazza assolata, sotto un pergolato o semplicemente sul divano… trattenete quel tempo. È vostro. Ed è il più prezioso che avete.

Foto di Anas Martadireja da Pixabay

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