
Cosa significa realmente perdonare? E fino a che punto il perdono umano ha un valore salvifico? È possibile assolvere l’imperdonabile, o esiste un limite morale oltre il quale il perdono diventa ingiustizia? Dall’etimologia della parola fino alle visioni dantesche dell’oltretomba, ci chiederemo: si può perdonare senza dimenticare? E chi non ha chiesto perdono, può essere assolto?
Etimologia e senso originario del perdono
La parola “perdono” deriva dal latino per-donare, “dare completamente”, “dare oltre”, “dare attraverso”. È un dono radicale, assoluto, che implica l’abbandono del desiderio di vendetta o risarcimento. Non si tratta di un semplice atto di clemenza, ma di un’offerta gratuita e incondizionata, spesso slegata dalla reciprocità. Tuttavia, proprio questa radicalità apre una frattura: si può davvero “donare oltre” ciò che è stato distrutto, leso, violato? Oppure il perdono, per essere autentico, esige una richiesta, una confessione, un pentimento?
Il filosofo francese Emmanuel Levinas, nella sua etica dell’Altro, parla di un volto che chiama e chiede: l’etica nasce dal riconoscimento dell’offesa. Non si può parlare di perdono se l’offesa non è nominata. Esso, senza memoria non è amore, è amnesia morale.
Søren Kierkegaard, nel “Diario di un seduttore”, mette in scena il dramma di chi ha offeso senza mai assumersene la responsabilità. L’assenza di richiesta di perdono, scrive, trasforma l’offesa in eternità del male: ciò che non è redento, resta.
Dottrina e controversie
Nel pensiero cristiano, il perdono ha sempre avuto una duplice dimensione: personale e divina. La dottrina cattolica distingue chiaramente tra il perdono umano, che riguarda le relazioni tra individui, e quello divino, che implica l’assoluzione dei peccati e la riconciliazione con Dio. Ma questo perdono superiore è legato al pentimento sincero (metanoia) e alla richiesta esplicita di misericordia. Senza la domanda, non c’è remissione.
Insomma, non è automatico.
Sant’Agostino scriveva: “Non si può ricevere il perdono senza chiedere di essere guariti”. Tommaso d’Aquino, nel Summa Theologiae, affermava che il perdono è “atto dell’amore”, ma l’assoluzione è “giudizio sulla verità del pentimento”. Anche nella liturgia cristiana, l’assoluzione sacramentale è condizionata alla confessione e al proposito di non peccare più. Perciò, chi non chiede perdono – o non lo chiede in tempo – può riceverlo?
Dante e il destino delle anime non pentite
Nel sistema ultraterreno dantesco, il perdono non è automatico. L’Inferno è popolato da anime che non lo hanno chiesto, che non hanno riconosciuto il male compiuto. È il caso di Farinata degli Uberti o di Ulisse: eroi della ragione e dell’orgoglio, ma privi della conversione del cuore. Anche chi ha fatto del male ma è morto senza contrizione resta imprigionato nel cerchio della propria colpa.
Al contrario, nel Purgatorio, i penitenti hanno già riconosciuto la loro colpa: espiano, soffrono, ma sono in cammino verso la luce. Beatrice stessa, nel rimproverare Dante nel XXX del Purgatorio, parla di giustizia e perdono come due ali dello stesso volo: chi ha ricevuto l’amore e l’ha tradito, deve purificarsi prima di accedere al Paradiso.
Perdono e giustizia: il debito interrotto
C’è poi il problema più doloroso: se chi ha offeso è morto, chi risarcisce il danno? La teologia parla di una “giustizia escatologica”, una giustizia che sarà rivelata “alla fine dei tempi”. Ma il dolore di chi resta non può essere ignorato. La filosofia morale, da Simone Weil a Paul Ricoeur, insiste sull’esigenza di riconoscimento. Il perdono non cancella il male: lo trasfigura, ma solo se esso viene riconosciuto e nominato.
Resta così aperta una voragine: posso perdonare chi non ha mai chiesto perdono? Posso farlo per liberare me stessa, come suggerisce certa psicologia spirituale, o è un atto incompleto? La giustizia esige memoria, e la memoria, a volte, è incompatibile con l’oblio.
Perdono e dimenticanza: un falso binomio?
Il perdono cristiano non implica necessariamente la dimenticanza. Anzi, in molti casi, ricordare è un atto di giustizia. “Perdono ma non dimentico” è un’espressione che può apparire amara, ma in realtà custodisce una verità profonda: dimenticare il male commesso equivale a negarne la gravità, a sottrarre dignità al dolore di chi l’ha subito.
Lo stesso Dio, nel Primo Testamento, si presenta come Colui che non dimentica, ma che sceglie di non imputare. C’è differenza tra cancellare e sospendere. Il perdono autentico è la sospensione del giudizio umano, ma non la cancellazione della memoria.
Un enigma sacro
Perdonare è un atto di grazia. Ma non è mai un atto semplice. Esige discernimento, equilibrio tra giustizia e misericordia, memoria e speranza. Non si può chiedere a chi ha sofferto di dimenticare. Ma si può invitare a trasformare il ricordo in offerta: offerta di libertà, di verità, di pace.
Il perdono è possibile, ma non senza il pentimento. È gratuito, ma non arbitrario. È il riflesso più alto dell’amore, ma anche il suo banco di prova più difficile.
E così, come ci insegna il Padre Nostro, la preghiera più antica: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Ma guai a recitarla senza convinzione. Perché se davvero lo facessimo, allora Dio dovrebbe giudicarci esattamente come noi giudichiamo gli altri. E forse, nel profondo, non siamo pronti a essere perdonati con la stessa misura che usiamo.
Scrivi