
New York City – Nel corso di questi quasi tre mesi di governo Trump, costellati da provvedimenti che hanno sconvolto l’equilibrio dell’America e del mondo, mi ero più volte chiesta perché nessuno protestasse.
“Noi italiani scendiamo in piazza per molto meno.” avevo detto alla mia amica americana, giornalista di un famoso quotidiano, “Qui mi sembra che nessuno faccia niente. Ma vi va bene così?”
“No, c’è forte scontento. Però siamo un paese molto grande, organizzare una protesta collettiva è complicato e richiede tempo. Ma vedrai che qualcosa faremo.”
E aveva ragione: sabato 5 aprile l’America intera è scesa in piazza per far sentire il proprio scontento rispetto alle politiche governative.
In oltre 1200 manifestazioni (1400 secondo la CNN) sparse in tutti i 50 Stati, milioni di americani hanno sfilato per le strade gridando hands off (giù le mani): basta con la gestione dittatoriale del paese, giù le mani da medicaid, il programma di assistenza sanitaria per chi ha redditi bassi, giù le mani dagli immigrati e da tutte le minoranze rimaste senza protezione.
A New York City la marcia ha sfilato sulla Quinta Avenue: l’appuntamento era alle 13 a Bryant Park, alle spalle della Public Library. Pioveva e faceva freddo.
“Vengo anche io.” mi ha detto la mia amica, “Se fosse stata una giornata di sole forse sarei rimasta a casa ma la pioggia potrebbe scoraggiare la gente a partecipare e allora vengo per dare il mio contributo.”
Mentre mi avvicino a Bryan Park, anche io penso che l’affluenza possa essere scarsa, c’è un clima che davvero scoraggia. Ma ho sottovalutato gli americani: le due strade che costeggiano la piazza di Bryan Park, la 42esima e la 40esima, sono un fiume di gente che lentamente sta scorrendo verso la Quinta, dove il corteo sta scendendo in direzione Madison Square Park. Organizzatissimi questi americani: il corteo arriverà alla fine del percorso e da lì i manifestanti abbasseranno i cartelli e si disperderanno con la stessa naturalezza con cui si sono radunati.
L’incontro era fissato alle 13 ora di NYC; nello stesso momento, in tutti i 50 stati, milioni di persone hanno ricordato al mondo che l’America non è solo quella di Trump, l’America sono loro, loro che si sono radunati per gridare che quel governo non li rappresenta, che “Trump is not America”, come si legge in alcuni cartelli, che “l’odio non fa grande l’America”.
“Giù le mani dalla democrazia”, si legge sullo zaino di un partecipante e “Giù le mani dai nostri alleati”, è scritto sul cartellone colorato dalle bandiere del Canada, UK, Europa, tra le atre, tenuto alto da una signora bionda.
Da europea, daziata a mazzata, empatizzo subito, mi avvicino e le dico “Grazie! Sono italiana, il tuo cartello mi piace.”
Lei mi guarda, mi prende una mano “I’m so sorry!” mi dispiace così tanto, mi dice con aria sinceramente afflitta, “è una cosa terribile quella sta succedendo. Mi dispiace così tanto!” e le luccicano gli occhi di lacrime.
“Non è colpa tua” le rispondo “ma quello che state facendo oggi è molto bello e noi crediamo che l’America vera siate voi, qui, oggi, e significa molto per noi.” le dico per consolarla, dall’alto del mio inesistente ruolo istituzionale.
“Grazie per quello che mi dici, grazie. Ci sentiamo così in colpa.” e, in lacrime, mi abbraccia. In quelle lacrime c’è la forza degli americani: sentirsi così parte del loro paese da sentirne il peso e la colpa.
E, mentre la folla sfila, noi due restiamo lì, sotto lo sguardo impietrito dei leoni di marmo che adornano la scalinata della Public Library (scolpiti, tra l’altro, dai fratelli Piccirilli, emigrati in America nel 1888, tanto per ricordare di come questa nazione sia stata fatta grande anche dagli immigrati), strette in un abbraccio che dà la misura di quello che una politica isolazionista rischia di distruggere: il senso di appartenenza allo stesso mondo, alla stessa umanità, fatta di diversità che si comprendono e si compensano.
Foto dell’autore
“questa nazione sia stata fatta grande anche dagli immigrati”.
Anche? Solo dagli immigrati. Altrimenti non ci sarebbero che Nativi Americani,
come attualmente ancora nella Amazzonia profonda.