Il rapporto tra cucina italiana e cucina del mondo islamico: una storia probabilmente da riscrivere

cucina spezie

Quando si parla di rapporto tra cucina italiana e cucina del mondo islamico la storiografia culinaria tradizionale (si veda per tutti «A tavola nel Medioevo» di Odile Redon, Françoise Sabban, Silvano Serventi, Laterza, 2012) si esprime in termini di «contatto»  attraverso le zone in cui la presenza araba è stata più duratura (la Sicilia, alcune località della Calabria, Lucera, Bari, Taranto e l’isola di Carloforte in Sardegna) ritenendo esagerata l’importanza attribuita alle fonti arabe nella cucina occidentale.

Un contatto, quello tra cucina europea e cucina del mondo islamico,  che si sarebbe bruscamente interrotto con la liberazione dalla dominazione araba della Sicilia da parte dei Normanni  alla fine dell’XI secolo e poi con la «Reconquista» della Spagna da parte dei Castiglia e degli Aragona nel 1492, anno che vide anche la spedizione di Colombo, che il 12 ottobre approderà in Centro America, e la cacciata degli ebrei dalla Spagna che creeranno le comunità sefardite della diaspora ebraica alcune delle quali verranno accolte dagli Ottomani in Anatolia.

A determinare la rottura sarebbe stata inoltre l’irruzione nella cucina europea, quale conseguenza della conquista ispano-portoghese del Nuovo Mondo, di tutta una serie di alimenti di origine americana che non si sarebbero limitati  ad aumentare l’offerta dei prodotti, ma avrebbero contribuito ad un deciso cambiamento del gusto (che si sarebbe completato alla fine del  1600 quando nuovi prodotti americani giunsero in Europa con la colonizzazione anglo-olandese  del Nord America) con l’abbandono della maggior parte delle spezie orientali (ad eccezione del pepe dalle insostituibili proprietà conservanti), la valorizzazione dei prodotti locali ed una diversa gestione dei grassi.

Da quel momento in poi sarebbero state la Francia e l’Italia a dettare il gusto occidentale mentre le contaminazioni tra la cucina europea e quella del mondo islamico sarebbero di fatto cessate o si sarebbero comunque rarefatte anche in ragione della permanente conflittualità tra mondo cristiano e mondo islamico accentuata dalla barriera linguistica e dalle estreme semplificazioni che gli europei hanno fatto delle complesse vicende etniche, politiche, religiose e culturali di quel mondo,  progressivamente, e sin troppo genericamente, identificato  nella triade Arabi-Saraceni-Ottomani.

Sulle tracce del gusto

L’ostacolo linguistico, se è in qualche modo superabile nei rapporti interpersonali e nella lingua parlata, può diventare insormontabile per i testi scritti, soprattutto se, come per la lingua araba, anche i segni grafici sono completamente differenti.

Se non facciamo eccessiva fatica a ritrovare tracce arabe nella denominazione di talune preparazioni e di alcuni ingredienti anche molto comuni della nostra cucina popolare, come le arancine siciliane derivate dal nome arabo dell’arancia, la naranjiya, lo zucchero, dall’arabo sukkar o lo stesso zafferano dall’arabo za῾farān, maggiore difficoltà si ha nel risalire ai testi arabi dai quali ha sicuramente attinto la letteratura gastronomica italiana a partire da due testi medievali: il «Liber de ferculis et condimentis» di  Giambonino da Cremona ed il «Liber de coquina», anonimo d’incerta attribuzione redatto nella Corte angioina tra la fine del 1200 e gli inizi del 1300, considerato il capostipite della cucina partenopea e  da cui derivano tutta una serie di libri di cucina anonimi ad esso contemporanei o di poco successivi. 

Tutti quasi certamente traduzioni di testi culinari arabi  o di testi in lingua araba che, come del resto è proprio anche della letteratura culinaria anche occidentale, mescolavano ricette e precetti salutistici.

Egualmente debitori verso la cucina araba sarebbero, secondo Michele Scolari, sia Bartolomeo Sacchi, detto il Plàtina, autore del  «De honesta voluptate et valetudine» edito per la prima volta a Roma nel 1474, sia Maestro Martino de’ Rossi (Martino de’ Rubeis) con il suo «Liber de arte coquinaria» della seconda metà del 1400, entrambi considerati  pilastri della nostra cucina.

Emerge allora con evidenza il ruolo di  Federico II di Svevia «Stupor Mundi», controverso Imperatore del Sacro Romano Impero (Dante nella Commedia lo metterà nell’Inferno), educato da precettori arabi e diffusore a sua volta della cultura araba  a cui secondo Michele Scolari si devono anche le influenze arabe nella cultura e nella gastronomia di Cremona, che di Federico fu la roccaforte nel Nord d’Italia,  e di Crema.

Federico II, in controtendenza con il suo tempo,  seppe tener distinto l’aspetto religioso da quello laico, quello culturale da quello politico ed il fascino che la cultura araba ebbe su di lui, al punto da farne un ambasciatore ed un sostenitore, è la dimostrazione che nella loro lunga dominazione siciliana gli arabi avevano creato una sorta di modello sociale ed economico  fatto di rigore scientifico, di tecniche di coltivazione e di irrigazione, di commercio e di sviluppo rurale ed urbano, cioè le condizioni ideali per la diffusione di una cultura culinaria.

Ingredienti propri della nostra cucina italica, come il frumento, gli agrumi, il carciofo, l’asparago e  gli spinaci ebbero ad esempio grande giovamento dalle tecniche agrarie arabe essendo ormai accertato che quella cultura, oltre ad aggiungere elementi originali, fu la sintesi di quella greco-romana, che l’oscurantismo religioso cristiano tendeva a distruggere e che invece il mondo arabo recepì, e delle culture orientali, soprattutto persiana e indiana.

Se e quanto questo modello sia stato riprodotto negl’insediamenti successivi di popolazioni riconducibili alla cultura islamica non è dato sapere perché la storiografia si preoccupa di altri aspetti.

Quello che è certo, tuttavia, è che quella cultura, anche gastronomica, dev’essersi in qualche modo radicata anche se una volta riversatasi nei testi tradotti si è perso il legame di certe pietanze con le loro origini così che ancora oggi ci si sorprende nel constatare che talune preparazioni che crediamo tipicamente nostre, come i ravioli, hanno origine araba o addirittura persiana.

Con i medesimi meccanismi possiamo apprezzare  le contaminazioni che la cucina italiana ha  subito da parte di altre cucine a loro volta influenzate dalla cultura culinaria del mondo islamico: la spagnola, sicuramente, ma anche la cucina balcanica, quella greca e, nell’ambito della cucina ebraica, quella sefardita.

Una delle possibili chiavi di lettura per comprendere le dimensioni di un  fenomeno tanto complesso è quella del gusto, degli ingredienti e della loro combinazione.

Alla cultura culinaria del mondo islamico ci legano infatti l’uso del grano duro (sia nella forma della pasta secca sia come cous-cous), del riso nella sottospecie japonica, delle melanzane,  delle mandorle e dello zucchero derivato dalla canna (che a lungo fu definito sale arabo e  fu prodotto anche in Sicilia), e dallo zucchero il marzapane,  la frutta candita e lo sherbet, la fresca bevanda di origine persiana a base di frutta, acqua, zucchero, spezie e latte o crema di latte da cui ha avuto origine il sorbetto, il gusto per l’agro-dolce e quello per i cibi speziati.

Se quella cultura ha avuto uno sviluppo sorprendente in Italia, al punto di distaccarsi in gran parte dalle sue origini, è perché da noi la sua naturale evoluzione non è stata frenata dai precetti e dai divieti religiosi legati al cibo che tanto condizionano sia la cucina islamica, sia quella ebraica.

Le diverse popolazioni italiche, inoltre, si sono dimostrate nel tempo più aperte alle contaminazioni  rispetto ad altre culture mediterranee e l’esempio forse più emblematico è rappresentato dall’uso del burro, considerato barbaro ai tempi dei Romani ed oggi ingrediente pressoché insostituibile della nostra pasticceria. 

Le reali dimensioni dell’influenza del mondo musulmano in Italia 

Nell’immaginario collettivo l’influenza araba, e più in generale islamica, in Italia si sarebbe limitata ai territori sotto la  diretta dominazione araba  e alle sporadiche quanto sanguinose incursioni dei pirati saraceni, delle quali rimangono traccia le torri di avvistamento e di difesa  distribuite  lungo tutte le nostre coste,  alcuni accenni nella cultura popolare, taluni toponimi  e la diffusione di alcuni cognomi di chiara matrice araba.

In realtà, soprattutto in epoca medievale, insediamenti più o meno stabili di popolazioni riconducibili al mondo islamico si sono avuti in quasi tutta la penisola italiana ed anche in zone all’apparenza insospettabili.

Un caso emblematico è rappresentato dalla conquista araba di Frassineto (l’attuale La Garde-Freinet non lontana da Saint-Tropez) che fece da base per circa un secolo (dal IX al X) per incursioni di varia durata ed intensità dei Saraceni in Provenza, Liguria, Piemonte sino alle aree alpine del San Gallo, in Svizzera.

Una storia, quella della presenza saracena sulle Alpi, sulle Prealpi e sull’Appennino ligure-piemontese, che la storiografia  più recente  sta faticosamente ricostruendo e che ha posto in evidenza che oltre alle incursioni, ai saccheggi, ai rapimenti in funzione di quel mercato degli schiavi cristiani che si alimentò per secoli, si registrarono anche piccoli insediamenti stabili  e cointeressenze con i Saraceni da parte dei vari potentati locali pronti ad utilizzarne le loro abilità militari in funzione delle proprie lotte intestine.

Più a sud la situazione si ripresentò con la distruzione di Centumcellae (odierna Civitavecchia) che fece da presupposto alle incursioni a Roma e alla penetrazione nell’entroterra, in Umbria e nelle Marche sino ad Ascoli e nel basso Lazio a Fondi, con la costituzione di  un insediamento fortificato, ribāṭ, sulla foce del fiume Garigliano.

Sul versante orientale della Penisola tutta la costa, da Ancona ad Otranto sino alla costa ionica pugliese, fu  oggetto di sanguinose incursioni saracene, anche se la presenza sicuramente più rilevante è quella che si identificò negli Emirati di Bari (dall’847 all’871) e di Taranto (dall’840 all’880) e nell’insediamento forzato, opera di Federico II di Svevia, di Lucera.

Alcuni secoli più tardi, all’epoca delle Repubbliche di Venezia e di Genova e del loro tentativo di controllo delle rotte commerciali mediterranee, si ripresentò una situazione per molti versi analoga in cui però accanto ai fatti più cruenti (si pensi ai saccheggi e agli stermini ad opera dei Saraceni a Otranto, Laigueglia, Rapallo, Vieste  e Paola) vi furono anche insediamenti pacifici ed avamposti a carattere commerciale.

Del resto l’espansione dell’Impero Ottomano, che vide il suo massimo splendore con Solimano il Magnifico (morto nel 1566) e che si dissolverà solo dopo la prima guerra mondiale,  aveva di fatto, con alterne vicende, posto sotto controllo ottomano più o meno duraturo ampie zone costiere ed interne del Nord-Africa, dal Marocco all’Egitto,  la Palestina, il Libano,  la Turchia, il Mar Nero, la Grecia, i Balcani (ad eccezione delle zone controllate dalla Serenissima e quelle oggetto di contesa con gli Asburgo), l’Ungheria e parte dell’Ucraina rendendo lo stesso Impero Ottomano, oltre che un avversario ed un nemico, un irrinunciabile interlocutore commerciale.

Ne sono la dimostrazione le alterne vicende del rapporto tra Venezia e gli Ottomani e soprattutto quelle della Repubblica di Genova la cui marineria  si propose come tramite tra le nuove rotte atlantiche ed il Mediterraneo e quindi anche con l’Impero Ottomano in competizione con la Francia che sin dal primo trattato del 1536 tra Francesco I e Solimano il Magnifico aveva stipulato, in funzione commerciale ed anti asburgica, quell’alleanza franco-ottomana, all’epoca definita scandalosa, che sarebbe durata sino a Napoleone.

È noto, ad esempio, che i  commercianti genovesi stilavano i documenti anche in arabo e che a Genova gli scambi monetari venivano fatti anche con moneta proveniente dal mondo arabo, mentre il termine «camallo», che da sempre identifica i lavoratori portuali di Genova, deriva dall’arabo hammāl, che significa portatore.

Egualmente da sottolineare la politica  filo-turca di Lorenzo de’ Medici dettata sia da esigenze commerciali sia dalla necessità di contrastare la Serenissima.

Nella seconda metà del 1700 sarà invece il Regno di Napoli ad inserirsi, grazie al diplomatico  Guglielmo Maurizio Ludolf, nei delicati equilibri geopolitici e commerciali tra potenze occidentali ed Impero Ottomano e nei bollettini portati alla luce dai ricercatori nell’Archivio di Stato di Napoli emerge che la marina mercantile napoletana trasportava dalla madrepatria verso il triangolo Salonicco-Costantinopoli-Smirne ingenti derrate alimentari tra le quali spiccano salumi, vino, cioccolato e maccheroni.

È quindi possibile affermare che i rapporti tra la cucina del mondo islamico e le diverse tradizioni culinarie popolari italiche non siano affatto cessati con la fine della dominazione araba in Italia.

A tale conclusione portano sia la frequenza e l’intensità dei contatti, sia l’ininterrotto scambio commerciale, sia, infine, la costante presenza  di delegazioni diplomatiche soprattutto durante il lungo dominio Ottomano del Mediterraneo.

Il ruolo di Smirne e la belle époque turca

Sotto l’Impero Ottomano Smirne (che i Turchi chiamavano gâvur Izmir, l’infedele Smirne)  fu una città vivace e cosmopolita in cui s’intrecciavano vita e affari di Turchi, Greci, Armeni, Italiani, Francesi, Tedeschi, Inglesi, Austriaci e Olandesi.

A Smirne si concentrò buona parte degli ebrei sefarditi rifugiatisi in Turchia dopo la cacciata dalla Spagna.

Verso la fine dell’800 Smirne visse la propria belle époque: le vie del centro erano perennemente  affollate e nella Rue des Francs, l’arteria principale parallela al mare,  si concentravano i negozi, gli uffici degli armatori, degli assicuratori e dei banchieri.

Nei trattati culinari ottocenteschi (valgano per tutti i testi di Francesco Leonardi,  «Apicio moderno»,  e di Giovanni Felice Luraschi,  «Nuovo cuoco milanese economico») si ritrovano tutta una serie di preparazioni «alla turca» o  «alla turchesca».

Quanto questo sia da attribuire agli influssi della cucina turca mediata dalle comunità straniere di Smirne, che nei paesi di origine erano denominate levantine, e quanto invece al tentativo dei redattori dei testi di cucina di dare una patente di esoticità ai propri piatti (nel linguaggio corrente dell’epoca turco o saraceno venivano anche utilizzati con il significato di esotico o d’incerta origine) non è dato sapere, ma è certo che tali aggettivazioni sono  l’indice di quella costante apertura della cucina italiana verso quella turca e degli altri Paesi del Mediterraneo, che permane tutt’ora, e del fascino che nel corso dei secoli la cultura del mondo islamico ha esercitato verso l’Occidente ad onta degli scontri feroci, delle sanguinose incursioni saracene e dei rapimenti.

Come non ricordare allora il «Kitab Hadith Alf Layla» (il libro del racconto delle mille notti noto come «Le mille e una notte») in cui la giovane e arguta Shahrazād ammalia con i suoi racconti il suo cinico sposo sino a farlo innamorare di lei e a risparmiarle la vita.

Un ciclo di racconti  dalla cui struttura narrativa  hanno sicuramente attinto sia William Shakespeare sia il nostro Giovanni Boccaccio col suo Decameron.

La cucina italiana come cucina nazionale ed i rapporti con la cucina mediterranea

Verso la fine del XIX secolo e per tutta la prima metà del XX si è avuto tutto un fiorire, a beneficio soprattutto della nascente borghesia post-unitaria, di una letteratura culinaria, di cui sono esponenti Pellegrino Artusi con il suo «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene» e Ada Boni con «Il Talismano della felicità», che per la prima volta ha cercato di enucleare dalle diverse tradizioni culinarie locali una cucina nazionale, una cucina «italiana» che si affrancasse dall’influenza dell’haute cuisine francese, reinventata da Marie-Antoine Carême tra la fine ‘700 e gli inizi dell’800.

Si trattava, peraltro, di un fenomeno che riguardava solo una parte della popolazione, quella di matrice borghese appunto, mentre i ceti popolari restavano arroccati nelle loro tradizioni locali e che diventerà di massa solo nel secondo dopoguerra grazie alle migrazioni interne e alla disponibilità di prodotti di largo consumo.

In quello stesso periodo, peraltro, si ebbe la tragica e sanguinosa avventura coloniale italiana che investì il Corno d’Africa e, successivamente, la Cirenaica e la Tripolitania, in quest’ultimo caso approfittando, come giù avevano fatto le altre grandi potenze, del progressivo sgretolamento dell’Impero Ottomano.

Lasciando in disparte gli aspetti socio-politici di quella conquista coloniale, che smentiscono il mito giustificazionista degli «italiani brava gente», va notato che, come attesta la storiografia contemporanea (si veda per tutti «La Libia ai tempi delle Colonie» di Arturo Varvelli) in Cirenaica ed in Tripolitania si realizzò, soprattutto durante il periodo fascista, una «colonizzazione demografica» e quindi a forte impronta agricola visto che lo scopo era sostanzialmente quello di creare insediamenti su larga scala che facessero da argine alla migrazione verso l’estero e che si accompagnò ad un velleitario tentativo di modernizzazione di quei territori (con la costruzione, ad esempio, della Litoranea libica che collegava la Tunisia all’Egitto, inaugurata  nel 1937). 

Nei fatti circa 120 mila italiani, provenienti soprattutto dalle regioni tradizionalmente interessate dal fenomeno migratorio italiano (Veneto, Sicilia, Calabria e Basilicata) s’insediarono sulla costa libica concentrandosi nei villaggi agricoli creati dal Fascismo nei dintorni di Bengasi e Tripoli.

Migliaia di famiglie provenienti dai ceti popolari presero contatto, o in alcuni casi lo ripresero, con una cultura culinaria araba che per moltissimi era già familiare per secolare frequentazione e se ne appropriarono trasferendola alle comunità di appartenenza una volta terminata quella dolorosa avventura.

Venendo ai giorni nostri, nel 2010 l’Unesco, sull’onda degli studi compiuti dal biologo e nutrizionista statunitense Ancel Keys principalmente in Calabria e nel Cilento e della sua «dieta mediterranea» divenuta, grazie alla sua famiglia, un fenomeno editoriale planetario, ne ha riconosciuto il valore di patrimonio  culturale  immateriale dell’Umanità  sottolineandone il carattere transnazionale che ha coinvolto inizialmente  i quattro Paesi proponenti (Italia, Spagna, Grecia e Marocco) e che nel 2013 è stato esteso a  Cipro, Croazia e Portogallo.

Con quel riconoscimento, che più che agli aspetti alimentari e salutistici ha guardato a quelli culturali, l’Unesco ha affermato che «la dieta mediterranea fornisce un senso di appartenenza e di condivisione e costituisce per chi vive nel bacino del Mediterraneo un indicatore di identità e uno spazio di condivisione e dialogo» evidenziando una sostanziale comunanza dei Paesi del Mediterraneo nel rapporto col cibo, i suoi riti di preparazione e consumo condiviso e di trasmissione delle tradizoni e potrebbe essere la base di partenza per un nuovo approccio anche alla nostra cucina.

Superate le barriere linguistiche, religiose e politiche, si potrebbe allora individuare una «cucina mediterranea» che ha salde radici comuni e mille sfaccettature, frutto del contributo originale di ciascun popolo e di ciascuna cultura, ma con un gusto ed una sensibilità che la rendono in qualche modo unitaria.

Ma questa è una storia ancora da scrivere.

Foto di Rudy and Peter Skitterians da Pixabay

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