I fagioli di Umberto Eco

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Accade sovente che i due tipi di memoria collettiva, quella preservata dagli storici e dagli scienziati, che con grande precisione datano gli accadimenti sulla base di riscontri documentali o scientifici, e quella che si diffonde oralmente sulla base di ricordi e percezioni personali e che oggi, anche grazie alla diffusione capillare della rete telematica, oltre a generare sovente veri e propri bias cognitivi, rischia di sovrapporsi a quella storica, vadano in conflitto.

Tutti noi, ad esempio, soprattutto dopo l’avvento della tecnologia distribuita, tendiamo ad avvicinare a noi nel tempo le invenzioni di cui beneficiamo quotidianamente.

Il frigorifero, che le famiglie italiane hanno iniziato ad avere in casa dalla fine degli anni ’50, data grosso modo la metà del  1800, l’ascensore è un suo coetaneo, il wi-fi fu brevettato dalla studiosa d’ingegneria Hedwig Eva Maria Kiesler, nota al grande pubblico come attrice di fama internazionale con lo pseudonimo di Hedy Lamarr, nel 1942.

Con il cibo, anche per ragioni affettive, accade il fenomeno opposto e si tende ad allontanare nei secoli alimenti e preparazioni che sono in realtà molto più recenti.

Non dobbiamo sentirci troppo in colpa per questo visto che è un incidente in cui sembra incorso anche uno studioso di grande rigore come Umberto Eco.

Il famoso scrittore, accademico e saggista ebbe infatti a pubblicare su The New York Times Magazine del  18 aprile 1999 un articolo dall’eloquente titolo «How the Bean Saved Civilization» ripreso  in Italia dal  Corriere della Sera del 16 maggio 1999 con un articolo intitolato  «L’Occidente salvato dai fagioli» in cui sosteneva tra l’altro che la rinascita dell’Occidente  a partire dal X secolo era dovuta alla diffusione della coltivazione dei legumi, ed in particolare dei fagioli, che come noto sono una fonte proteica a basso costo.

Il problema è che i fagioli a cui faceva probabilmente riferimento Eco non erano quelli della specie Vigna unguiculata di origine africana che sopravvivono soprattutto in Toscana in cui sono noti come fagioli all’occhio, ma i più diffusi oggi fagioli comuni di origine americana tra i quali si annoverano i borlotti e i cannellini.

Peraltro le considerazioni di Eco sono in linea generale corrette dal punto di vista alimentare se riferite agli altri legumi che da tempo immemorabile sono parte dell’alimentazione occidentale: si pensi semplicemente alle famose lenticchie di Esaù, alle fave, ai piselli, ai lupini e alla cicerchia.

Discutibile semmai è la scelta della data, il X secolo, perché se Eco si riferiva ai fagioli  europei, coltivati sin dall’antichità, ma recessivi rispetto agli altri legumi come le fave, i piselli e le lenticchie, quella data non sembra aver apportato nulla di significativo, se invece, come sembra far pensare l’edizione nordamericana dell’articolo, aveva in mente proprio i fagioli comuni, che rispetto ai fagioli del genere Vigna sono più facili da coltivare ed hanno una resa per ettaro praticamente doppia,  Eco ne aveva retrodatato di almeno sei secoli la diffusione in Europa.

Poco male: vorrà dire che se  si è confuso un grande saggista come Eco, possiamo farlo anche noi.

Buona cucina

Foto di HomeMaker da Pixabay

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