Hermann Pitz nella piccola vetrina di Franz Paludetto

Il 24 settembre la piccola vetrina di Franz Paludetto [www.franzpaludetto.com] è lieta di riaprire i battenti per ospitare il primo artista della nuova stagione 20102011: Hermann Pitz.

Per l’ occasione le pareti dello spazio saranno gremite di fotografie rappresentanti gli strumenti da lavoro dell’ artista, mentre al centro della sala verrà posizionato un leggìo, reggente un catalogo cartaceo avente la funzione di schedare ciascun utensile dell’ artista.

Una tale installazione trova ragion d’ essere nella volontà -di Pitz- di condividere un personale cammino riflessivo circa la ricerca di una propria visione del mondo; l’ artista serve,quindi, il proprio punto di vista, senza, però, voler con questo soverchiare la soggettiva interpretazione del mondo reale, tipica di ciascun osservatore.

[Le informazioni relative al vernissage appariranno via comunicato stampa e sul sito, nel giro di due settimane: tenete monitorato l’ evento!]

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HERMANN PITZ

Artista tedesco, nativo della Oldenburg di metà anni 50’, in Germania occidentale; formatosi alla scuola d’ arte di Berlino.

Negli anni 80’, assieme ad altri due artisti (Kummer e Rahmann) dette vita ad un collettivo -il “Büro Berlin”- a nome del quale vennero presentate installazioni temporanee situate in spazi anch’ essi temporanei . La caratteristica di questi eventi artistici, quindi, era la durata precaria, che poteva essere combattuta solamente grazie all’ uso della fotografia, che permetteva di creare una sorta di “archivio” di momenti che sarebbero, poi, ineluttabilmente svaniti.

E’ necessario riconoscere, quindi, come il mezzo fotografico sia, da un lato, il punto fermo nel sistema produttivo dell’ artista, e, dall’ altro, elemento di scissione della riflessione artistica del medesimo Pitz.

In un primo momento, infatti, questi si serve della fotografia perseguendo uno scopo documentativo, essendo mentalmente allineato all’ idea di R. Barthes (esplicitata nel celebre libro “La camera chiara”) secondo il quale la fotografia sarebbe un mezzo per catturare qualcosa di effimero, che non può durare (a maggior ragione dato che la fotografia sarebbe una messa in scena della Morte, in quanto ciò che è stato fissato nel riquadro di cellulosa è destinato a morire, se non è già morto). Sulla scia di questo “credo”, quindi, Pitz realizzò un archivio fotografico di tutte le proprie opera delenda.

E’ il 1985 l’ anno in cui l’ artista, dopo aver rivisto tutte le foto delle proprie installazioni temporanee, prende atto di aver perso “la vista della reale struttura materiale degli oggetti”, svoltando dalla propria linea di pensiero; secondo la sua nuova consapevolezza il mezzo fotografico mancherebbe parzialmente di quella capacità comunicativa, tale da permettere che un osservatore possa percepire i soggetti rappresentati come tridimensionali.

Pitz arriva, quindi, a definire la fotografia come << una proiezione del reale su un pezzo di carta >>. Ed è proprio in virtù della volontà di apportare una soluzione a questa mancanza, che l’ artista partorisce la tecnica del “fotomontaggio in tre dimensioni”. Se la vecchia successione logica |oggetto -> fotografia| era stata, quindi, completamente sovvertita, ora è previsto che il processo creativo parta direttamente dall’ immagiine fotografica. E’così che Pitz inizia a sottrarre delle parti – tagliando – a varie fotografie, col fine di realizzarne in tridimensione proprio i pezzi mancanti: ciò che viene sottratto si ri-materializzerà nello spazio.

Ne è un esempio lampante una foto in cui figurano delle gocce d’acqua: nel Gennaio del 2000, infatti, Pitz tornò nuovamente (dopo il 1987) ad esporre a New York, stavolta presso la galleria di Christine Burgin; un articolo pubblicato dal New York Times descrive di come una parete della sala espositiva fosse coperta da una gigantografia di gocce d’ acqua depositatesi su una teiera d’ argento; le medesime erano già state proposte in tridimensione negli anni 90’, come traspare dalle foto dell’ installazione “Panorama MCMXCI” presso il Witte de With, Center for Contemporary Art di Rotterdam.

Questa nuova direzione della poetica di Pitz lascia affiorare un’ altra costante presente nelle sue produzioni: la distorsione.

Una fotografia che memorizzi un “reale appena passato”, non rendendolo fisicamente accessibile (in quanto interviene sulla sua percezione), è un mezzo che distorce il reale stesso, al pari di uno specchio, di una lente, di una macchina fotografica, di una goccia d’ acqua (che funge da lente d’ ingrandimento) o di fonti d’ illuminazione di ogni sorta, tutti elementi assai numerosi nelle varie installazioni dell’ artista.

La distorsione nell’ opera di Pitz non va intesa solamente come un mero fenomeno fisico, bensì anche come un processo mentale: l’ artista che si ritrova innanzi ad una distorsione vede insorgere dentro di sé una “perdita dei punti di riferimento”, ed è proprio per evitare il panico dello smarrirsi che Pitz non fornisce un paradigma assoluto per la visione del mondo, bensì, in modo molto astuto, condivide con il pubblico il proprio cammino introspettivo, portandolo a livellarsi alla propria condizione. Questo è reso possibile dalla presenza, nelle installazioni, di una serie di “elementi trovati” nel quotidiano -degni eredi del ready made Duchampiano- ed elevati ad oggetti d’ arte. L’ artista supera, però, Duchamp, poiché, diversamente da quello (che riteneva che il valore conferito all’ oggetto comune fosse direttamente proporzionale al riconoscimento dell’ artista da parte del pubblico), elargisce a ciascun soggetto che osservi le sue opere il medesimo potere dell’ artista: credere alla propria individuale visione del mondo, sulla base del modo personale d’ ognuno di percepire tutti i tipi di distorsioni che ossessivamente pullulano nelle opere di Pitz stesso.

E’ così che si risolve lo smarrimento percettivo dell’ artista e, per esteso, dell’ uomo: il microcosmo dell’ installazione porta alla presa di coscienza di un mondo costituito da realtà molteplici e frammentate visioni, diversamente interpretabili; tante quante sono gli uomini.

Esemplare è il caso della “Die Ganze Form” del 1987: una scatola di legno all’ interno della quale vi era la rappresentazione di un paesaggio; sull’ immagine è posizionata una lente che ha una forma vagamente simile a quella di una goccia (funge da lente d’ ingrandimento), che l’ osservatore può muovere a proprio piacimento, prendendo, così, visione personale –distorta- del paesaggio e delle architetture ivi rappresentate; un altro esempio, ancora, può essere “Kö”, installazione del 1990, costituita di 20 pezzi di gocce di resina traslucida (300 x 300 x 400 cm), illuminate da una serie di lampade, grazie alle quali si generano effetti di luce molto suggestivi e diversi, sintomatici dei diversi punti di vista possibili.

Ogni opera di Pitz è “aperta” e sempre modificabile, oltre a ricollegarsi a tutte le altre per via di un indissolubile legame, alimentato dalla volontà dell’ artista di non voler mai veder svanire un paradigma interpretativo del reale, perciò smantellato sul nascere e soppiantato dalle infinite possibilità dell’ uomo.

Un uomo, quindi, non può mai perdersi.  

Ilaria Baldini

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