Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte

latte

«Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte» cantava nel 1962 un giovanissimo Gianni Morandi e sempre nel 1962 nel felliniano «Le tentazioni del dottor Antonio», nel film ad episodi «Boccaccio ’70», il moralista dottor Antonio Mazzuolo, interpretato da Peppino De Filippo, si trovava a combattere ossessivamente contro un enorme cartellone pubblicitario installato all’Eur proprio di fronte alle sue finestre (nello spazio dove ora sorge «La Nuvola») nel quale una straripante e sensuale Anita Ekberg invitava a bere più latte. 

Nella colonna sonora composta da Nino Rota l’ossessione del dottor Antonio era esaltata dalla canzoncina «Bevete più latte», cantata dal Coro delle voci bianche della Rai:  «Bevete più latte, il latte fa bene, il latte conviene a tutte le età, bevete più latte, prodotto italiano, rimedio sovrano, per tutte le età».

Anche se la coincidenza temporale tra la canzone di Morandi e la finta pubblicità del latte del film di Fellini (su sceneggiatura di Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano) è del tutto casuale, non casuale appare invece la promozione e la crescita del consumo di latte fresco, rigorosamente vaccino, a partire dagli anni del boom economico.

Pane e latte divennero infatti, in un’Italia che per la prima volta conosceva un benessere diffuso concentrato soprattutto nelle grandi città, acquisti quotidiani indispensabili e le bottiglie di latte di vetro col tappo di stagnola, che proprio negli anni ’60 saranno progressivamente sostituite dalle più pratiche confezioni di Tetra Pak, iniziarono a trovare posto nei «frigidaire», rigorosamente bianchi e bombati.

A ciò contribuì non poco una politica dei prezzi calmierati: nel 1960 un litro di latte prodotto dalle Centrali del latte pubbliche  costava 90 lire, il triplo del prezzo di un quotidiano, poco meno del doppio del prezzo di un caffè e la metà di un chilo di pane.

Nel trentennio ’50-’80 il consumo annuo pro-capite di latte fresco, che ultimamente è calato significativamente,  registrerà una crescita costante passando da circa 40 litri a quasi 85: numeri comunque abbastanza lontani da quelli degli altri Paesi del Nord Europa, che si attestano intorno ai 100 litri. 

Consumi concentrati nella prima infanzia e nei giovani, mentre per gli adulti i maggiori consumatori vivevano in gran parte nelle città ed appartenevano alla crescente piccola borghesia: quella che prima di andare in ufficio o in bottega si poteva permettere di fare colazione al Bar con cappuccino e cornetto.

Tra le classi popolari il consumo del latte in età adulta veniva visto ancora con sospetto, soprattutto se dissociato da quello mattutino del caffellatte.

Ne fornisce uno spassoso spaccato la celeberrima scena dei maccheroni del film di Steno del ’54 «Un americano a Roma» in cui torna da protagonista sugli schermi  il  Nando Mericoni-Alberto Sordi di uno degli episodi di  «Un giorno in Pretura» dell’anno precedente. 

Nando, detto l’Americano per il suo abbigliamento e la parlata finto-yankee, dopo aver provato un improbabile e disgustoso intruglio che crede essere cibo «americano» ed aver preso la bottiglia del  latte per accompagnarlo si avventa sul  piatto di spaghetti e sul fiasco di vino lasciando il latte «ar gatto».

Come si è arrivati però a dire, almeno a livello promozionale, che  il latte è il «rimedio sovrano per tutte le età» della canzoncina «Bevete più latte»?

Il latte nell’alimentazione

La specie umana, come tutti i mammiferi, assume il latte come primo, e fino allo svezzamento unico, alimento  ed è ovviamente il latte materno.

Questo latte, fondamentale per i neonati, non contiene solo acqua e nutrienti, ma anche elementi indispensabili alla salute ed al corretto sviluppo neonatale: anticorpi, ormoni, tra i quali quelli che regolano il ritmo sonno-veglia, cellule staminali, globuli bianchi, prebiotici, probiotici (i  batteri benefici)  ed enzimi tra cui la lattasi, presente  nel feto già dalla ventitreesima  settimana di gestazione, che è indispensabile per la corretta digestione del latte stesso avendo il compito di scindere il lattosio, che rappresenta circa il 5% del latte, in due zuccheri semplici: il glucosio e il galattosio. 

Laddove, per i più svariati motivi, la madre non possa o non voglia allattare si è ricorsi sin dalla preistoria a due modalità di nutrimento dei neonati: attraverso il latte di altre madri che nello stesso periodo sono in fase di allattamento dei loro piccoli, le cosiddette balie, e l’alimentazione «artificiale» con alimenti succedanei il principale dei quali è il latte di mammiferi domesticati: ovini, caprini, bovini, equini (giumente ed asine) ma anche camelidi e, per i popoli nordici, le renne; queste ultime protagoniste di un bellissimo libro per l’infanzia, «Pastori di renne» di Mario Pucci e Walter Minestrini un tempo edito da Mursia ed ora introvabile.

Una prassi che inizia in epoca preistorica se si considera che il primo biberon rinvenuto, fatto di argilla e conformato per essere tenuto dalle mani del neonato, data al  Neolitico e quindi circa al 5.000 a.C. mentre altri consimili avevano forme di animali per incuriosire i piccoli ad invogliarli ad avvicinarli alla bocca.

L’allattamento dei neonati altrui, un atto solidaristico che si registra anche in altre specie di mammiferi e persino tra specie diverse (famoso il caso della vacca che ha allevato un cucciolo di leopardo) è diventato nei secoli un vero e proprio lavoro, solitamente assunto dalle contadine meno abbienti: il baliatico, e  Collepardo, in provincia di Frosinone, è stato definito negli anni ’30 dal  pittore Scipione (Gino Bonichi) «il paese delle balie».

La balia più famosa, ancorché  non umana, è la lupa capitolina la quale, secondo il mito fondativo di Roma, avrebbe allattato nel lupercale (una grotta naturale) i due gemelli Romolo e Remo, figli di Rea Silvia e  nipoti  del Re di Albalonga Numitore il cui trono era stato usurpato dal fratello Amulio.

Amulio, per timore di essere spodestato dai discendenti di Rea Silvia, la fece diventare vestale, ma lei rimase incinta dei gemelli da parte del dio Marte e allora Amulio ordinò ad un servo di annegarli nel Tevere, ma questi mosso a pietà   li abbandonò nel fiume  in una cesta che s’incagliò nei pressi del lupercale dove furono trovati ed accuditi prima dalla lupa e poi dal pastore Faustolo, da sua moglie Acca Larentia e dalla sua famiglia.

Qualcuno, peraltro, ha affacciato l’ipotesi maliziosa che la «lupa» non fosse un animale, ma una prostituta, che a Roma era chiamata appunto lupa, da cui il termine  «lupanare» con  cui s’identificava il luogo in cui si esercitava la prostituzione.

Per quanto riguarda invece l’uso alimentare del latte di altre specie, accertato storicamente sin dal 6.000 a.C. in Mesopotamia e che si è progressivamente diffuso in Europa circa 500 anni dopo, la sua necessità è strettamente legata a due elementi indispensabili allo sviluppo e alla salute dell’apparato osteoscheletrico, alla corretta funzionalità dell’apparato nervoso, alla coagulazione del sangue e alla regolazione enzimatica: il calcio ed un ormone, la vitamina D, prodotto anche dall’organismo umano, che ne facilita l’assimilazione.

Il calcio, che rappresenta circa il 99% delle ossa,  è reperibile in moltissimi alimenti: il latte, talune acque di sorgente che ne sono ricche, la frutta secca, gli ortaggi le verdure a foglia scura, i legumi ed i molluschi: tutti però mediamente poveri di vitamina D.

Questa invece si trova in maniera consistente in alcuni  pesci grassi come il salmone, lo sgombro e l’aringa, nelle frattaglie, nel fegato e nelle uova, in particolare nel tuorlo.

La principale fonte della vitamina D, tuttavia, detta anche «Vitamina del sole», è lo stesso corpo umano che la produce naturalmente per esposizione, anche di breve durata, ai raggi solari di tipo UVB.

La carenza di vitamina D, con tutti i problemi che comporta in termini di ridotta assimilazione del calcio (come il rachitismo in età infantile, l’osteomalacia e l’osteoporosi e  quindi la fragilità ossea in età adulta) è strettamente legata alle condizioni ambientali come il clima freddo o piovoso, che costringe in ambienti chiusi ed a coprire l’epidermide per trattenerne il calore e proteggere dalla pioggia, la latitudine, che riduce la quantità di raggi UVB ed in generale tutte le condizioni, forzate o volontarie, che riducono il periodo di tempo di  esposizione del corpo ai raggi solari.

Un problema che non si pone, evidentemente, per tutte quelle persone e quelle popolazioni che, per ragioni ambientali, devono invece proteggersi dai raggi solari, che hanno anche effetti negativi molto gravi sulla pelle come i tumori, e che, progressivamente con la perdita della peluria, hanno sviluppato la produzione di melanina: un insieme di pigmenti della pelle prodotti da alcune cellule specializzate, i melanociti, che la rendono scura e che sono i responsabili di ciò che chiamiamo «abbronzatura».

I nostri più antichi progenitori, provenienti dalle zone più calde del Pianeta, erano sicuramente di pelle scura.

Gli studi condotti dal gruppo di ricerca coordinato dalla paleoantropologa  Sandra Wilde, dell’ateneo di Mainz in Germania, hanno accertato che nelle popolazioni dell’Europa centrale la pigmentazione più chiara della pelle ha iniziato ad essere geneticamente dominante «solo» 

6.000 anni fa e, cosa molto importante, che tale dominanza genetica si è accompagnata alla persistenza della lattasi, che s’identifica  nel gene LCT, anche in età adulta.

In buona sostanza allora la minore esposizione ai raggi solari, dovuta alle migrazioni verso luoghi che per ragioni ambientali la ostacolano e che naturalmente porta ad una minore produzione di vitamina D e quindi a maggiori difficoltà di assimilazione del calcio,  sembra sia stata geneticamente «compensata» con la persistenza della lattasi e quindi con la possibilità di digerire il latte di altre specie, ricco di calcio, supplendo alla carenza di vitamina D con gli alimenti che maggiormente ne sono ricchi.

Questo spiega, allora, anche il tipo di alimentazione tipicamente nordica nella quale il latte, ricco di calcio, si aggiunge al consumo di salmoni ed aringhe a loro volta ricchi di vitamina D.

Pur non essendovi una corrispondenza perfetta tra perdita della lattasi (ipolattasia) ed intolleranza al latte (che in media investe o ha investito temporaneamente circa il 65% della popolazione mondiale) questa è sufficiente a spiegare la separazione del consumo tra il latte cosiddetto fresco ed i suoi derivati, come formaggi e latticini,  che attraverso i diversi processi produttivi mediamente riducono, in modo più o meno consistente (maggiore per i formaggi stagionati come il parmigiano reggiano stagionato per almeno 24 mesi, minore per lo yogurt) la quantità di lattosio presente nel latte fino a rendere questi alimenti mediamente tollerati perché l’eventuale carenza di lattasi è compensata da altri meccanismi digestivi.

Continuiamo però ad occuparci del latte  «rimedio sovrano per tutte le età» riservandoci di raccontare in un’altra occasione la millenaria storia del formaggio e degli altri derivati del latte.

La prima colazione italiana di ogni età: un prodotto a base di cereali abbinato al caffellatte o  al cappuccino

Nel descrivere lo zucchero nell’edizione italiana del 1914  de «La Fisiologia del gusto», Anthelme Brillat-Savarin scriveva che «mescolato col caffè e latte, fornisce un alimento leggero, piacevole, facile a procurarsi e che conviene perfettamente a coloro che subito dopo colazione si mettono al lavoro di tavolino».

Nella prima metà del 1900 era nata quindi la colazione contemporanea, a beneficio soprattutto di coloro,  in numero crescente, che facevano lavori di tipo intellettuale oltre che, ovviamente, di scolari e studenti.

Veniva quindi da un lato interrotta, a beneficio della crescente media e piccola borghesia,   l’esclusiva del consumo di questi alimenti da parte dei benestanti, dei nobili e del clero, dall’altro creato un ulteriore discrimine, in questo caso alimentare, tra lavoro intellettuale, che necessita di carburante per la mente, e lavoro manuale che invece ha bisogno di alimenti decisamente più consistenti.

Una distinzione, tuttavia, che a lungo resterà appannaggio solo dei Paesi mediterrane e che anche nei Paesi mediterranei verrà in parte sostituita dalla «pausa caffè», continuando quelli nordici le loro abitudini iperproteiche tipiche della colazione cosiddetta continentale con uova, bacon, pane tostato ed altri alimenti energetici.

Com’è nata la prima colazione?

Il termine «colazione» è entrato nel lessico comune relativamente tardi ed è legato alla tradizione monastica del digiuno che comportava l’eliminazione di uno dei soli due pasti consumati sino all’epoca moderna: il «prandium»  corrispondente alla nostra cena.

In quei giorni infatti ai monaci era concesso di rompere il digiuno consumando un pasto frugale dopo la «collatio», la lettura serale di testi edificanti che si svolgeva tra vespro e compieta.

Col tempo questo termine è diventato sinonimo di rottura di digiuno finendo per fondere la lettura con il pasto che la seguiva e  la colazione come rottura del digiuno si ritrova anche in altre lingue come l’inglese in cui prende il nome di  breakfast (da break-rompere e fast-digiuno), lo spagnolo desayuno e il francese petit-déjeuner.

La sua diffusione tra i laici, peraltro, si lega strettamente alla secolarizzazione iniziata nel XIX secolo: in precedenza, infatti, un terzo pasto oltre ai due canonici sarebbe stato considerato quantomeno inopportuno  perché la gola, nel senso d’ingordigia, golosità, ghiottoneria, era considerata dalla religione cristiana un peccato capitale.

I due pasti ammessi erano la «commestio», che avveniva interrompendo il lavoro intorno alle ore undici, e il «prandium» il pasto serale che si consumava dopo il tramonto e che, anche per ragioni di tempo, era  quello principale.

Solo a coloro che si apprestavano ai lavori più faticosi  era concesso un breve pasto alle prime ore del mattino fatto per lo più con gli avanzi della cena abbinati, a seconda delle abitudini, con  vino o birra.

Ancora più anticamente i Romani consumavano nelle prime ore del mattino, preceduto da un bicchiere d’acqua,  lo «ientaculum» a base di  avanzi della sera,  pane, formaggio, olive e miele,  oppure pane intinto nel vino dolcificato, condito con olio d’oliva,  aceto e sale o accompagnato in estate dai fichi.  Ai bambini venivano dati latte e pane o focaccette.

Alle nostre latitudini nessuno, o quasi, consumava quindi il latte fresco in età adulta ed il motivo, oltre che legato alla lattasi, era anche pratico: il latte, infatti, arrivava nelle case subito dopo la mungitura (di bovini, caprini o ovini, più raramente delle Asine) e quindi era in misura variabile pericoloso per la salute o andava bollito con una perdita significativa di nutrienti. 

Dopo lo sviluppo non vi era un motivo apprezzabile per  utilizzare questo alimento, oltretutto abbastanza costoso, mentre gli anziani tornavano a ricorrervi, per fronteggiare la loro naturale fragilità ossea, solo quando non erano più in condizione di esporsi ai raggi solari e di assumere altri alimenti ricchi di calcio come i legumi.

Ed il cappuccino con il cornetto?

Narra in un gustoso saggio Daniela Guaiti che entrambi sono legati a Vienna ed al suo assedio da parte dei Turchi nel settembre del 1683.

Il cappuccino, infatti, deve il suo nome ad un frate cappuccino,  padre Marco d’Aviano (proclamato Beato, ma non per questo motivo si deve supporre, da Papa Giovanni Paolo II) il quale, recatosi in una bottega del caffè di Vienna, aveva giudicato troppo forte la bevanda di caffè che gli era stata servita e vi aveva aggiunto del latte: dal colore della bevanda e dal suo improvvisato inventore era nato il cappuccino.

Anche il cornetto, dalla riconoscibile forma di mezzaluna crescente, sarebbe invenzione, sempre secondo Daniela Guaiti,  dei viennesi e creato appositamente dai pasticceri per festeggiare la disfatta dei Turchi del 1693.

Diffusosi rapidamente in tutta Europa, questo dolce molto amato dalla nobiltà verrà poi rielaborato dai francesi che gli daranno il nome di «croissant», che richiama  anch’esso, nella forma e nel nome, la mezzaluna crescente.

Il latte fresco come prodotto essenzialmente industriale

Un’approfondita analisi della diffusione e dell’industrializzazione del latte si deve alla bolognese Giuliana Bertagnoni, saggista e divulgatrice storica dell’età contemporanea, che ne ha ripercorso le tappe, soprattutto nella zona emiliana, dall’800 ai giorni nostri.

Dal saggio della ricercatrice emiliana si evince come il latte fresco vaccino (che è quello che consumiamo prevalentemente) sia diventato un prodotto di massa solo con l’industrializzazione alimentare e che quindi in Italia abbia sofferto della cronica arretratezza di questo settore almeno sino al secondo dopoguerra.

Antecedentemente alla sua industrializzazione il latte fresco, sia per ragioni eminentemente sanitarie sia di difficoltà di conservazione, era consumato con comprensibile diffidenza visto che poteva comportare problemi di salute anche molto gravi.

Fu il Fascismo, con il R.D. 994/1929 detto «Carta del latte», a regolamentarne per primo in Italia la produzione e la vendita introducendo le essenziali norme sanitarie e soprattutto riservando il monopolio del latte pastorizzato alle Centrali pubbliche del latte che in alcuni casi, come a Roma, erano sorte già agli inizi del ‘900.

Un provvedimento per molti versi indispensabile, ma connotato da forti influenze ideologiche: da un lato, infatti, sosteneva la zootecnia nazionale, dall’altro  tendeva, come negli Stati Uniti ed in altri Paesi europei come la Francia, a combattere l’uso degli alcolici sostituendoli con il latte.

Un tentivo, come attesta la celeberrima scena di «Un americano a Roma» che abbiamo già citato, destinato a naufragare miseramente visto che il consumo del latte tra gli adulti è nel tempo calato sensibilmente anche a beneficio della birra e del vino.

Questo o damo ar gatto

In «Un americano a Roma» la bottiglia di latte, abbandonata ogni velleità di cibo americano, viene destinata  da Nando «ar gatto» ed in un periodo di crescente adozione di cani e gatti come compagni di vita e membri della famiglia contemporanea viene spontanea una domanda: il latte fa bene o fa male ai nostri piccoli amici?

Ho girato il quesito ad una cara amica: Sara Russo, cuoca, studiosa dell’alimentazione umana e degli animali domestici, allevatrice con  il pluripremiato «Riesenherz Kennel» in provincia di Viterbo.

La prima osservazione di Sara Russo smentisce uno dei luoghi comuni più diffusi: quello secondo il quale l’uomo sarebbe l’unica specie che, in età adulta, si nutre del latte di altri mammiferi.

Rammenta infatti Sara Russo che tutti i predatori, onnivori e carnivori, quando predano una femmina di mammifero gravida  o in allattamento si nutrono anche delle sue interiora, ricche di vitamina D  e del latte delle mammelle e lo stesso accade quando la preda è un cucciolo che è in fase di allattamento.

L’uomo, quindi, è l’unica specie che si nutre  «sistematicamente» del latte di altri mammiferi non per una particolare attitudine della sua specie rispetto agli altri predatori, ma perché, a differenza degli altri competitori alimentari, se n’è dato l’opportunità domesticando mammiferi lattiferi ed è presumibile che sia entrato in contatto con il latte di altre specie cacciandole, cioè esattamente come gli altri predatori.

Anche gli altri mammiferi, tuttavia, soffrono della perdita di lattasi in età adulta, ma la compensano nutrendosi delle interiora (e delle mammelle) degli animali predati che, al pari di quelle umane, contengono, in fase di allattamento, una buona quantità di lattasi.

Per gli animali domestici, i cani, relativamente onnivori, ed i gatti, che invece sono carnivori, che non cacciano mammiferi che allattano, ma vengono nutriti da noi, il problema della perdita della lattasi si manifesta in tutte le sue conseguenze e quindi, in età adulta, essi sono mediamente intolleranti al latte.

Ciò significa, prosegue Sara Russo, che dare del latte fresco vaccino ad un cane o ad un gatto vuol dire non nutrirlo o, nella peggiore delle ipotesi, creargli dei problemi anche gravi a livello gastrointestinale.

Per una corretta alimentazione dei nostri amici quindi è opportuno ricorrere semmai ad altri tipi di latte, come quello ovino, oppure al latte artificiale.

Perché però cani e gatti sono attratti dal latte e se glielo diamo se ne cibano volentieri?

Secondo Sara Russo entrano in gioco vari fattori. 

Innanzitutto il fatto che gli animali hanno minore capacità d’individuare gli alimenti che gli fanno male rispetto a quella che gli attribuiamo comunemente: il cioccolato o i lievitati fanno malissimo ai cani, ma se glieli diamo se ne nutrono golosamente.

Il secondo fattore è ancestrale perché in natura non tutto il latte è pericoloso per i nostri  amici pelosi o quantomeno non lo è nella stessa misura in cui lo è quello fresco vaccino.

Infine vi è una forte componente affettiva e di fiducia: i nostri piccoli amici si fidano di ciò che gli diamo per nutrirli e sta a noi non tradirli o ingannarli per superficialità o ignoranza.

Il latte fresco fa bene?

Come per tutti gli alimenti, ed a dispetto della pubblicità che ossessionava il dottor Antonio, è sempre una questione di consapevolezza e di uso appropriato, ma se per nutrirci di latte in età adulta dobbiamo ricorrere ad allevamenti intensivi irrispettosi del benessere animale e dell’ambiente forse possiamo farne tranquillamente a meno e sostituirlo con altri alimenti altrettanto ricchi di calcio.

Foto di Couleur da Pixabay

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