Dazi. Trump alza barriere doganali senza precedenti e poi ci ripensa

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Dazi. Settimana a dir poco tempestosa nel mare magnum dell’economia mondiale. Lo scorso 2 aprile Trump ha annunciato l’imposizione generalizzata di dazi all’importazione su tutte le merci estere. Con l’occasione, il Presidente americano ha battezzato quel giorno il “Liberation Day”. Il calcolo dei tassi da applicarsi ai singoli Stati a partire dal 5 aprile è derivato da un discutibile algoritmo da lui descritto in TV.

In sostanza, alle merci prodotte negli Stati UE sarebbe stato applicato un dazio del 20%, all’ingresso nel territorio USA. Alle merci britanniche solo il 10%. Quelli dalla Cina portati al 54%. Giappone e Corea, rispettivamente al 24% e al 25%. India al 26%. Messico e Canada sono stati esentati ma solo perché alcuni giorni prima gli era già stata applicata un’aliquota del 25%.

L’aliquota dei dazi calcolata in base a un algoritmo

Dal suo punto di vista, ci ha trattato anche bene. Il criterio applicato dall’algoritmo, secondo Trump, sarebbe stato quello di reciprocità. Per ogni singolo Stato sarebbe stato calcolato un dazio in base all’indice di restrizione sulle importazioni USA fissato dall’algoritmo. Esattamente pari alla metà di quell’ipotetico parametro.

Poiché per la UE tale indice è stato calcolato al 39%, ecco che Trump ha controbattuto con un dazio del 20%. Poco più della metà. Solo che, tra le “restrizioni”, l’algoritmo ha considerato anche il calcolo dell’IVA (in media tra il 18 e il 22%). Che però è applicata anche sulle merci prodotte e vendute in Europa e non solo a quelle importate dagli USA.

Lo scopo dell’operazione era quello di proteggere l’industria statunitense sul mercato interno. A spese della concorrenza estera. È ciò a cui miravano i milioni di elettori, soprattutto delle aree industriali, che hanno mandato Trump alla Casa Bianca. Il Presidente e i suoi elettori confidavano che l’applicazione dei dazi avrebbe comportato una contrazione delle vendite dei prodotti importati. Penalizzati dall’aumento dei prezzi.

Nell’era della globalizzazione l’applicazione dei dazi diventa controproducente

A ciò il mercato interno avrebbe reagito “comprando americano”. Esenti dai dazi, infatti, i prezzi delle merci made in USA sarebbero rimasti immutati. Con conseguente aumento della loro circolazione e incremento della loro produzione.

Purtroppo non sempre è così. Anzi, nell’attuale globalizzazione del capitalismo industriale, il mercato è condizionato da molti altri fattori. Concentriamoci allora sulla provenienza dei principali prodotti che minacciano l’industria USA. E sui settori maggiormente interessati.

La concorrenza cinese riguarda soprattutto i settori altamente tecnologici. Mettiamola per il momento da parte. Ci interessano maggiormente, infatti, le conseguenze sulle merci italiane ed europee. La minaccia per l’industria USA sono le automobili assemblate in Germania, con componenti prodotti in Italia. Seguono le automobili coreane e giapponesi. L’Italia esporta anche prodotti agro-alimentari (vino, olio, parmigiano ecc.).

La produzione europea ha successo in USA per la sua qualità e non per i prezzi

Se tali prodotti stanno spopolando negli Stati Uniti, mettendo in crisi l’industria USA, non dipende dal loro prezzo. Dipende dalla qualità e dall’idoneità a soddisfare i bisogni del consumatore USA. Che, per quanto riguarda l’automobile, sono sempre più vicini agli standard europei. Aumentare il prezzo delle importazioni automobilistiche europee (e nippo-giapponesi) applicando i dazi, avrà poco effetto sui consumi USA.

Tra l’altro, i produttori europei potrebbero benissimo diminuire di un sostenibile 10% i loro prezzi all’export. Magari compensando con un aumento del 10% al loro interno. È questa una “trovata” che, nell’ultimo trentennio del 900, era ampiamente praticata dalla FIAT. E anche dall’industria giapponese. Inoltre, i prodotti agro-alimentari italiani sono diffusi in strati medio-alti della popolazione americana. Tali settori difficilmente preferirebbero cambiare i loro gusti in favore del meno qualificato prodotto americano. Magari geneticamente modificato.

La risposta delle borse

Alla decisione del Presidente americano la Commissione Europea ha inizialmente risposto chiedendo un ragionevole compromesso. Evitando, quindi, reazioni scomposte o addirittura rappresaglie di natura economica. A tale invito, Trump ha risposto in maniera volgarissima, con un’espressione in slang newyorkese facilmente traducibile. La UE allora ha risposto decretando a sua volta dazi selettivi sulle importazioni dagli USA, a partire dal 15 aprile.

Nel frattempo le borse mondiali hanno risposto con dei cali da grande depressione. In 5 giorni le borse asiatiche sono scese dagli 8 ai 15 punti percentuali. Quelle europee dai 5 ai 7 (Milano). Ma è crollata, in misura più o meno pari alle borse europee, anche Wall Street.

La ritirata di Trump

Ora, le borse rispondono sempre emotivamente alle situazioni impreviste o imprevedibili del mercato. Ma, per tale motivo era logico aspettarsi un crollo solo delle borse europee o asiatiche. Ci si aspettava, invece, una risalita di Wall Street, per il motivo opposto. Invece, ha perso anch’essa migliaia di miliardi di dollari.

I potenti capitalisti USA, infatti, ormai ben sanno che il mercato globale è sostanzialmente indifferente all’applicazione o meno di tariffe. Le borse, invece, sono molto più sensibili alla contrazione degli scambi commerciali. Quindi hanno convinto Trump di sospendere l’applicazione dei dazi almeno sui prodotti europei e nippo-giapponesi.

Trump è stato costretto a farlo, escludendo però quelli sui prodotti cinesi. Che, invece, ha portato al 145%. Contro l’84% nel frattempo applicato dalla Cina sulle merci USA. Quindi è stato lui ad offrire alla UE quella parte del suo corpo precedentemente citata. Per giungere a una soluzione negoziata. Nei prossimi giorni se ne vedranno ancora delle belle.

Foto di Csaba Nagy da Pixabay

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