Dante e il “De vulgari eloquentia”: dalla lingua perduta al sogno unitario

dante alighieri

Nella Genesi si narra che un tempo «tutta la Terra aveva una lingua sola e le stesse parole». Emigrando dall’Oriente gli uomini si stabilirono nel paese di Senaar, dove vollero costruire una città con una torre che fosse in grado di toccare il cielo. Un’opera mossa dalla superbia che ambiva a eguagliare e addirittura superare Dio. Allora «il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: Ecco essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro».

La vicenda della Torre di Babele rappresenta l’ennesima punizione che Dio infligge all’uomo disobbediente, dopo la cacciata dall’Eden e il Diluvio Universale. La perdita dell’idioma comune porta all’incomunicabilità, quindi al caos e alla dispersione. Nel Medioevo si credeva davvero che la varietà dei linguaggi nascesse dalla confusione babelica. Esempio illustre è il De vulgari eloquentia di Dante Alighieri, trattato realizzato durante l’esilio tra 1304 e 1305, scritto in latino perché rivolto ai dotti ma strutturato come un  vero e proprio manuale dei volgari italiani. Un’opera che avrebbe certamente avuto un ruolo chiave nell’ambito delle trasformazioni linguistiche del ‘300 e del ‘400 se non fosse andata perduta per essere rintracciata solo nel ‘500.

La lingua adamitica

Nel Primo Libro del De vulgari eloquentia Dante afferma che la lingua primordiale era quella che Dio aveva donato a Adamo. Una capacità innata peculiare dell’uomo che consentì a Adamo di pronunciare la parola El (Dio, Padre) prima ancora di aver mai udito parlare qualcun altro. In generale la parola permette all’umanità intera di dare voce ai propri pensieri e così comunicarli attraverso lo strumento sensibile della voce. Tuttavia solo il linguaggio primigenio aveva di per sé la caratteristica a cui i poeti di ogni tempo ambiscono da sempre: la capacità di arrivare subito al senso ultimo delle cose. Riuscire a esprimere il senso totale delle cose significa possedere la realtà, comprendere i meccanismi complessi della Natura e trovarvi il proprio posto all’interno. 

La perdita di questo protolinguaggio unitario e perfetto ha dato vita a tanti idiomi parziali. Nessuna lingua infatti — fosse anche affidata al miglior oratore — riuscirebbe mai a esprimere un pensiero senza appiattirlo e impoverirlo. Tuttavia Dante ci dice anche che la lingua adamitica non è andata del tutto perduta. È stata conservata dai pochi che non erano presenti alla costruzione di Babele e della torre. I discendenti di Sem, ovvero gli ebrei: «Quibus autem sacratum ydioma remansit nec aderant nec exercitium commendabant, sed graviter detestantes stoliditatem operantium deridebant. Sedhec minima pars, quantum ad numerum, fuit de semine Sem, sicut conicio, qui fuit tertius filius Noe: de qua quidem ortus est populus Israel, qui antiquissima locutione sunt usi usque ad suam dispersionem».

La dignità del volgare

Nonostante l’origine comune e peccaminosa delle varie lingue del mondo, Dante sostiene che tra di esse ce ne siano alcune che hanno più dignità di altre. Ed è qui che entra in gioco il tema del volgare. La prima distinzione che troviamo nel De vulgari eloquentia è quella tra lingua naturale (volgare) e lingua artificiale (latino). Secondo il Sommo Poeta la lingua naturale ha dignità maggiore di quella artificiale perché essendo quella materna, è la più antica e usata (seppur differenziata in vocaboli e pronunce diverse a seconda della zona geografica).

La lingua artificiale è una grammatica creata dagli uomini, ma pochi sono quelli che riescono a possederne le regole fino in fondo perché necessita di tempi lunghi e studio assiduo. Pertanto viene classificata come lingua di secondo grado e tralasciata da un trattato che fin dall’introduzione si mostra deciso a approfondire solo il più nobile dei linguaggi. Il volgare, appunto.

Alla ricerca del volgare perfetto

Dopo aver distinto tre grossi ceppi linguistici europei (germanico-slavo, greco, provenzale-francese-italiano), Dante individua ben 14 volgari italiani. Lo scopo è quello di trovarne uno con le carte in regola per essere elevato a lingua letteraria comune a tutta la Penisola. Esso dev’essere illustre (degno di uomini di alto magistero), cardinale (punto di raccordo di tutti i volgari italiani), aulico (adatto alla reggia) e curiale (atto alle curie più eccelse). Nessuno dei volgari presenti in Italia incarna pienamente tutte queste caratteristiche. Quelli che più ci si avvicinano sono il siciliano illustre e il bolognese.

Saranno dunque questi idiomi a dover dare il contributo maggiore nella creazione di un volgare italiano. Un pensiero rivoluzionario che ha il sapore della profezia, dato che i tempi erano acerbi per pensare a un’Italia unita. Con il De vulgari eloquentia il Sommo Poeta dimostra di avere già in mente un’ Italia che trova l’unità nella lingua prima ancora che da leggi comuni. Ed è anche per questo sogno patriottico — oltre che per la grandezza delle opere — che a settecento anni dalla morte celebriamo ancora la grandezza di Dante Alighieri.

Nella foto di Waltteri Paulaharju da Pixabay la statua di Dante Alighieri in Piazza Santa Croce a Firenze

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