Dante Alighieri e Farinata degli Uberti: la contrapposizione politica e l’esperienza dell’esilio

dante alighieri

«Tutti saran serrati/ quando di Iosafat qui torneranno/coi corpi che là su hanno lasciati./Suo cimitero da questa parte hanno/con Epicuro tutti i suoi seguaci,/che l’anima col corpo morta fanno./Però alla domanda che mi faci/quinc’entro satisfatto sarà tosto,/e al disio ancor che tu mi taci». Siamo nella Divina Commedia, X Canto dell’Inferno. A parlare è il poeta Virgilio, colui che Dante definisce «virtù somma», ovvero estrema razionalità. Per il poeta infatti la guida è l’unica luce in un contesto come quello infernale, in cui dominano confusione, irrazionalità e sofferenza.

Le parole di Virgilio si riferiscono al Giorno del Giudizio, quando nella valle di Iosafat le anime purificate si uniranno di nuovo al corpo per risorgere e i sepolcri di quelle dannate si chiuderanno per sempre. Ed è proprio in mezzo a questi sepolcri che si trovano Dante e la sua guida quando viene pronunciato il discorso. Il Canto X infatti è ambientato nella città di Dite, locata nel sesto cerchio dell’inferno, custode di sepolcri infuocati (chiamati anche «arche») dove hanno dimora le anime degli eretici.  

Farinata degli Uberti

Dante chiede a Virgilio se è possibile vedere le anime che giacciono nelle arche, dato che le sepolture sono aperte e incustodite. Ma ha anche un altro desiderio che tace, e che il Maestro intuisce ugualmente. Vuole sapere se tra i seguaci di Epicuro (ovvero gli eretici) c’è anche il suo conterraneo e antagonista politico: Farinata degli Uberti.

Farinata degli Uberti è vissuto nel XIII secolo ed è morto nel 1264, un anno prima che Dante nascesse. Fu uno dei capi ghibellini che nel 1248 contribuirono a scacciare i guelfi da Firenze. Al rientro dei guelfi in città, fu esiliato. Allora si unì ai ghibellini senesi fiancheggiati dal re Manfredi, i quali sconfissero i guelfi fiorentini nella famosa battaglia di Montaperti. Ma quando i vincitori decisero di distruggere Firenze, Farinata fu l’unico a opporsi, affermando che avrebbe difeso la sua città fino all’ultimo respiro.

L’incontro e la giustificazione

Farinata degli Uberti entra in scena non appena si accenna a lui, richiamato dall’accento familiare del Sommo Poeta. Prima si avverte il suono della voce, poi lo vediamo emergere dalla sua arca infuocata e mostrandosi dalla cintola in su. «O tosco che per la città del foco/vivo ten vai così parlando onesto,/piacciati restare in questo foco». Farinata riconosce Dante come simile in quanto toscano e diverso in quanto vivo. Trovare un vivo nell’oltretomba è un imprevisto, un caso eccezionale, e anche un’occasione per raccontare la propria storia e talvolta per giustificarsi.

A proposito dell’esilio e della battaglia di Montaperti Farinata afferma: «A ciò [a muoversi contro Firenze] non fu’ io sol […] né certo/senza cagion con li altri sarei mosso./Ma fu’io solo, là dove sofferto/fu per ciascun di torre Fiorenza,/colui che la difesi a viso aperto». Farinata riconosce di aver contribuito a versare il sangue dei fiorentini, ma rivendica anche il fatto di aver impedito che i senesi distruggessero la città. Si duole soprattutto perché alla sua stirpe — nonostante siano state emanate delle leggi di rimpatrio per i ghibellini — non è mai stato consentito di tornare a Firenze, e la considera un’ingiustizia.

L’esilio e la predizione

Nel corso del canto il rapporto tra Dante e Farinata cambia perché è l’atteggiamento dei personaggi a mutare. Farinata compare sulla scena come una figura prepotente e sprezzante ma poi si rivela un’anima dolente e tormentata. Dante vi si accosta con timore ma poi finisce per essere solidale con lui. Nonostante siano un ghibellino e un guelfo a confronto, entrambi sperimentano il dramma dell’esilio e questo li accomuna. 

È tuttavia necessario precisare che, anche se quando Dante inizia a scrivere la Commedia è già in esilio, nella finzione del poema questo non è ancora un esule. È proprio Farinata che gli rivela il suo destino mediante una predizione: «Ma non cinquanta volte fia riaccesa/la faccia della donna che qui regge [Ecate],/ che tu saprai quanto quell’arte [l’esilio] pesa». 

Foto di Felicity_Kate11 da Pixabay

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