Come l’Impero romano alla fine della decadenza  

Il 26 maggio 1883, sulle pagine del periodico parigino «Le Chat Noir» compare un sonetto dal titolo Langueur. La poesia porta la firma del poète maudit Paul Verlaine. I primi versi recitano: «Sono l’Impero romano alla fine della decadenza,/che guarda passare i grandi Barbari bianchi/componendo acrostici dolenti dove danza/il languore del sole in uno stile d’oro». «Decadenza», «dolenti» e «languore» sono parole che rimandano al senso di disfacimento assaporato con compiacimento autodistruttivo particolarmente diffuso tra gli intellettuali francesi della fine del XIX secolo.

La perdita dell’aureola e la crisi

Si tratta dell’atteggiamento tipico del bohémien che la critica francese del secondo Ottocento — volendo utilizzare un termine spregiativo — definisce «decadentismo». Alla fiducia nel progresso propria del Positivismo e del Naturalismo, il Decadentismo sostituisce un forte senso di crisi e precarietà. Come dice Charles Baudelaire in Perdita d’Aureola (poemetto in prosa della raccolta Spleen, 1869): il poeta ha perso l’aureola, gli è scivolata «giù dalla testa nel fango del selciato».

Un poeta senza aureola è un letterato che ha perso la sua sacralità, il suo ruolo privilegiato nella società. Non potendo più godere di un “posto al sole”, ai poètes maudits non resta che occupare solo zone d’ombra. Si ritirano ai margini della società e alla chiarezza della ragione e del metodo scientifico preferiscono l’oscurità del mistero, dell’abisso, della morte. Temi particolarmente cari al Decadentismo sono infatti l’attrazione irresistibile per il nulla, la malattia nevrotica e fisica, il gusto per la lussuria e la perversità. Ma anche l’esaurirsi delle forze che si traduce in estrema raffinatezza e l’ammirazione per epoche di decadenza come, appunto, quella del tardo Impero romano. 

La noia, l’eccezionalità e l’autodistruzione

Il rapporto analogico che Verlaine pone tra la propria condizione e «l’Impero romano alla fine della decadenza» porta con sé la sensazione di una fine imminente. Non c’è attesa del futuro. «Tutto è bevuto, tutto è mangiato!» e non c’è «niente più da dire!». Il poeta ha perso l’aureola, la poesia ha perso la sua utilità. Resta solo il languore imbevuto di indolenza di chi non ha più voglia di trattare temi sociali e morali, ma si limita a svolgere un puro esercizio formale (lo «stile d’oro»). Ne derivano forme vuote percorse dalla passività e dalla noia («Solo, un poema un po’ fatuo che si getta alle fiamme,/solo, uno schiavo un po’ frivolo che vi dimentica,/ solo un tedio d’un non so che attaccato all’anima!»), ma non dalla quieta rassegnazione. 

Dando voce a questa malattia dell’anima chiamata languore, Verlaine vuole esprimere la propria eccezionalità rispetto alla mediocrità borghese. Una eccezionalità propria di tutti i poètes maudits,  che va oltre le opere e sfocia nella condotta morale. Caratteristica fondamentale dell’artista maledetto è infatti l’attitudine alla profanazione di tutti i valori e le convenzioni della società. Egli sceglie deliberatamente il male e l’abiezione, si compiace di vivere una vita misera, sregolata, segnata dalla lussuria sfrenata e dall’uso di alcool e droghe. L’autoannientamento è il prezzo da pagare per il privilegio di acquistare una vista più acuta, capace di penetrare il mistero della vita che si cela dietro la realtà tangibile. 
a Foto di Siala da Pixabay

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