Bellezza e convenzioni: l’utilità dei buoni costumi secondo il Galateo

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Nel capitolo IX del Galateo, Giovanni Della Casa definisce “ritrosi” coloro che «vogliono ogni cosa al contrario degli altri». Lo sono coloro che si dimostrano rustici, malinconici, selvatici quando sono in compagnia. Quelli che sono detti «strani» poiché sembrano «stranieri» ovunque si trovino. Si può dire dunque che il ritroso sia il «forestiero» della società, una figura che avrà molto successo nel Romanticismo e nella letteratura novecentesca, ma che in pieno Rinascimento rappresenta solo l’antitesi dell’eleganza e della misura. 

I buoni costumi e le grandi virtù

Com’è noto, l’eleganza e la misura delle maniere sono gli obiettivi fondamentali del Galateo. Addomesticarsi per promuoversi all’interno della società è fondamentale in un’epoca in cui l’uomo è considerato innanzitutto come essere sociale e socievole. Ciò non significa che esercitare le grandi virtù non sia importante, ma solo che avere buoni costumi sia ugualmente fondamentale poiché l’arte delle buone maniere viene esercitata molto più spesso rispetto al coraggio o alla temperanza. 

«[Le comuni virtù] si convengono essercitare ogni dì molte volte, essendo a ciascuno necessario di usare con gli altri uomini ogni dì ed ogni dì favellare con esso loro; ma la giustizia, la fortezza e le altre virtù più nobili e maggiori si pongono in opera più di rado; né il largo e il magnanimo è astretto di operare ad ogni ora magnificamente, anzi non è chi possa ciò fare in alcun modo molto spesso». La missione del cosiddetto uomo “domestico” (termine opposto a selvaggio, barbaro, estraneo) è quella di esercitarsi costantemente nel rendersi piacevole agli altri in modo da nobilitare se stesso e suscitare l’approvazione degli altri. 

Il modello unico della bellezza

In un presente che si dice sempre più incline a cercare la bellezza nelle differenze e a valorizzare l’originalità del singolo, la mentalità espressa dal Galateo risulta distante, anacronistica. Oppure esprime una spinta conformistica che non ci è ancora estranea quanto vorremmo, e allora può risultare fastidiosa. Ad ogni modo, ogni opera — anche la più grande e la più moderna — è legata al suo tempo e nel Rinascimento il massimo della bellezza stava nell’armonia dell’Uno, mentre il molteplice era sintomo di bruttezza e disarmonia. 

Il vecchio precettore — ovvero il narratore del monologo che costituisce l’opera — spiega al suo giovane allievo che cercare la misura in tutte le cose è caratteristica peculiare dell’uomo. «Dove ha convenevole misura verso di sé e fra le parti e ‘l tutto, quivi è la bellezza: e quella cosa veramente bella si può chiamare, in cui la detta misura si truova.» È tutta una questione di omogeneità e proporzione, la bellezza di un volto come quella dei costumi. Sono valori da ricercare in sé con fatica, disciplinandosi, ripulendosi, levigandosi. Ne deriva una ricostruzione dell’io tutta esteriore che getta le basi dell’uomo convenzionale che sarà l’antitesi dell’eroe romantico ottocentesco e dell’inetto novecentesco. Tutto per la promozione e l’accettazione sociale che, che piaccia o no, è ancora una delle aspirazioni principali del nostro tempo. 

Foto di Jill Wellington da Pixabay

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