Alla ricerca della frontiera: Dino Buzzati e l’inesorabile scorrere del tempo

Arriva per tutti il momento di lasciare il nido e spiccare il volo. È la necessità esistenziale e fisiologica del diventare adulti, di camminare finalmente con le proprie gambe, di maturare nel raggiungimento dei propri obiettivi. L’obiettivo del principe di I sette messaggeri di Dino Buzzati, per esempio, è quello valicare i confini dell’immenso regno del padre e scoprire cosa c’è fuori. Ma questo Regno si rivela più grande del previsto e il viaggio — seppure racchiuso in sole cinque pagine di racconto — finisce per coprire una vita intera. 

«Ho cominciato il viaggio poco più che trentenne e più di otto anni sono passati […]. Credevo, alla partenza, che in poche settimane avrei facilmente raggiunto i confini del regno, invece ho continuato a incontrare sempre nuove genti e paesi; e dovunque uomini che parlavano la mia stessa lingua, che dicevano di essere sudditi miei. Penso talora che la bussola del mio geografo sia impazzita e che, credendo di procedere sempre verso il meridione, noi in realtà siamo forse andati girando su noi stessi, senza mai aumentare la distanza che ci separa dalla capitale; questo potrebbe spiegare il motivo per cui ancora non siamo giunti all’estrema frontiera.»

La frontiera inesistente

Come in Il deserto dei Tartari, questo racconto di Buzzati narra un’attesa interminabile e totalizzante che sfuma nella sospensione. Con la baldanza tipica dei giovani, il principe parte aspettandosi di compiere uno spostamento lineare da A a B, che si articoli come una grande avventura. Ma ben presto si accorge di aver perso la direzione e inizia a sospettare di trovarsi in una sorta di labirinto circolare. Il viaggio sembra avvitarsi su se stesso, come la vita intorno al punto d’origine a cui prima o poi è destinata a tornare.

Eppure la capitale diventa sempre più lontana, e se la distanza aumenta l’unica spiegazione plausibile è che il confine del regno non esista. Leggendo I sette messaggeri verrebbe voglia di azzardare l’ipotesi che il regno — anonimo e indefinito come tutti i reami fiabeschi — sia la rappresentazione metaforica della vita. La capitale è il nucleo di affetti famigliari in cui l’individuo cresce e si struttura, le zone periferiche sono il mondo esterno in cui avviene la maturazione. La ricerca della frontiera invece è la caccia al grande evento della vita che ratifica definitivamente la maturazione e oltre il quale non si scorge più nulla.  

Il divenire e l’estraneità

Ma il vero obiettivo del viaggio esistenziale è lo svolgimento dell’esistenza stessa, e ammettere la presenza di una frontiera sarebbe come dire che una volta raggiunto l’obiettivo si può smettere di vivere. Al suo posto Buzzati pone un cammino infinito caratterizzato da un continuo divenire di cui è impossibile isolare un momento dall’altro, un’io dall’altro. E allora non si capisce se il grande evento sia impossibile da realizzare o se ci si passi attraverso senza accorgersene. «Non esiste, io sospetto, frontiera, almeno nel senso che noi siamo abituati a pensare. Non ci sono muraglie di separazione, né valli divisorie, né montagne che chiudano il passo. Probabilmente varcherò il limite senza accorgermene neppure, e continuerò a andare avanti, ignaro». 

In una terra così vaga e vasta, con la bussola impazzita e nessun punto di riferimento, il principe finisce per sentirsi straniero. Straniero nel senso di estraneo perché catapultato in un presente schiacciato tra una città del passato che non esiste più e un futuro all’insegna di paesaggi selvaggi completamente da esplorare. Ed è inutile illudersi che le nuvole che gli passano sulla testa siano le stesse della fanciullezza, il nido è perduto per sempre. Afferma il principe: «La capitale, la mia casa, mio padre, si erano fatti stranamente remoti, quasi non ci credevo. Ben venti mesi di silenzio e di solitudine intercorrevano ora fra le successive comparse dei messaggeri. Mi portavano curiose lettere ingiallite dal tempo, e in esse trovavo nomi dimenticati, modi di dire a me insoliti, sentimenti che non riuscivo a capire».

I messaggeri del tempo

I sette messaggeri sono il tentativo di mantenere un legame con gli affetti che formano il substrato dell’identità del principe. Ma sono anche il simbolo dello scorrere del tempo che rende l’io diverso e il passato irrecuperabile. Se all’inizio lo scambio di notizie è semplice e costante, l’allungarsi dell’itinerario allarga sempre di più l’intervallo di arrivo tra un messaggero e l’altro. Ciò significa che le notizie giungono al principe sempre più rare e già vecchie («Essi mi recavano oramai notizie lontane; le buste mi giungevano gualcite, talora con macchie di umido per le notti trascorse all’addiaccio da chi me le portava»). 

La presa di coscienza dell’inutilità della comunicazione con la capitale apre le porte alla vecchiaia. Conscio di essere vicino alla morte, il principe sente che al «rimpianto delle gioie lasciate» si sta sostituendo «l’impazienza di conoscere le terre ignote» che lo aspettano. La morte, tema caro a Buzzati, si profila all’orizzonte come un’ «improbabile meta» avvolta da una «luce insolita» e caratterizzata da piante, monti e fiumi che sembrano fatti di una consistenza diversa da quella «nostrana». Ma si annuncia anche come un luogo ricco di presagi indefinibili a cui il principe non vuole arrivare impreparato. Così, dopo aver affidato al messo Domenico l’ultimo saluto alla città natale, invia gli altri messaggeri in avanscoperta. Vuole che gli portino notizie di quelle terre sconosciute e si facciano misura del tempo che gli resta prima di varcare l’ultima ineluttabile frontiera.

Foto di Yuri_B da Pixabay

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