In base ai parametri economici comunemente accettati, la “malattia” dell’Irlanda è, in realtà, terminata da almeno un paio d’anni. Nel 2014, infatti, il PIL irlandese ha toccato un +7% e nel 2015, addirittura il + 7,8% di media annuale, superando perfino i parametri di Cina e India. Ma, attenzione: l’isola atlantica, negli anni ’90, viaggiava a un ritmo anche superiore, intorno al 10% annuo, eppure la crisi economica non l’ha risparmiata e il paese ha rischiato il default.
La Tigre celtica
Erano gli anni in cui l’economia irlandese era stata giornalisticamente soprannominata “la Tigre celtica”, in analogia con le galoppanti economie asiatiche. Uno sviluppo economico favorito dalla politica di detassazione, tollerata dalla UE, simile a quella di tanti Stati “off shore”, come il Lussemburgo, il Principato di Monaco, il Liechtenstein e i paesi caraibici. Non per nulla il gigante farmaceutico Big Pharma e la stessa Google avevano scelto, rispettivamente, Dublino e Cork come sedi di riferimento per la normativa applicabile, tasse (inesistenti) comprese, così come altre multinazionali.
Ma era uno sviluppo poggiato sulle sabbie mobili di un’economia ancora immatura per riuscire a consolidarsi. Inoltre – come in Spagna – il sistema bancario contribuì al deterioramento della situazione, finanziando una forsennata crescita edilizia, con prestiti assistiti da garanzie spesso rivelatesi inconsistenti. Nel 2008 il sistema è crollato, veicolando sull’orlo della bancarotta tutto il sistema-paese.
Il premier Enda Kenny, leader del Fine Gael, è stato, quindi, costretto a chiedere l’aiuto del fondo salva Stati dell’Unione Europea che accordò all’Irlanda un prestito di 70 miliardi di euro, in cambio di un severo regime di austerità. Nel secondo trimestre 2010, il PIL irlandese era già tornato con il segno +, per poi subire un’altra caduta e tornare in rosso nel corso del 2013.
L’isola di smeraldo
Sono questi frequenti alti e bassi a far temere agli osservatori economici che la “malattia” dell’ “isola di smeraldo” possa essere ancora latente, nonostante il boom degli ultimi due anni e mezzo e le misure adottate dai governi irlandesi. Inoltre, sono state proprio tali misure a punire il governo Kenny e il suo partito di centro (Fine Gael), alle elezioni politiche del febbraio scorso.
Il Fine Gael, infatti, ha perso un terzo dei seggi, mentre il suo alleato (Partito laburista) si è ridotto a soli 7 seggi. Le opposizioni, tuttavia, essendo divise tra destra (Fianna Fail) e sinistra (Sinn Fein), non potevano accordarsi per costituire un governo alternativo. Sin quando Kenny non è riuscito ad ottenere dal Fianna Fail l’appoggio esterno per poter governare, sino all’approvazione del Bilancio 2017-2018.
E’ comunque un governo debole, il “Kenny 2” che, con tutta probabilità, dovrà trovarsi a gestire un terremoto politico alle sue frontiere, con risvolti diretti per il proprio futuro e di tutti i suoi concittadini. La parte settentrionale dell’isola, dipendente dalla Gran Bretagna, si espressa per il no alla Brexit, contrariamente al resto del Regno Unito, che ha votato sì. L’Irlanda, come è noto, fa parte dell’UE e dell’area Euro. Ciò ha riacceso attriti anti britannici in Irlanda del Nord e aspirazioni “panirlandesi” che si credevano sopiti con la conclusione della guerra civile.
L’accordo di pace del 2007, infatti, ha lasciato ai “repubblicani” nord-irlandesi la facoltà di richiedere l’indizione di un referendum per l’annessione alla parte meridionale dell’isola e, di conseguenza, il “ritorno” in Europa. I cattolici nord-irlandesi hanno quindi già annunciato che, al momento della notificazione alla UE della Brexit, da parte di Londra, procederanno in tal senso. Nel frattempo, già un milione e mezzo di nord-irlandesi hanno richiesto a Dublino la cittadinanza irlandese, opzione anch’essa contenuta negli accordi di pace.
Il “no” alla Brexit
A complicare la questione è il fatto che, in realtà il no alla Brexit, pur maggioritario nel totale dei voti, è risultato comunque minoritario in 11 province su 33, abitate da protestanti, favorevoli a continuare a dipendere dalla Gran Bretagna e contrari all’unificazione con la cattolica Irlanda del sud. Il governo di Dublino, quindi, si troverà a gestire un futuro che, per quanto riguarda i rapporti politici con i connazionali del nord dell’isola e il Regno Unito, appaiono, al momento, assolutamente imprevedibili.
[…] sostenibile da economie molto meno industrializzate di quella italiana, come la Spagna, l’Irlanda e il […]