Concludiamo il nostro “viaggio” tra i malati d’Europa con l’Italia.
Quando, nel 2011, la Commissione europea notificò all’Italia la procedura di infrazione per superamento del debito pubblico oltre i limiti consentiti, la crisi economica recessiva, creatasi negli Stati Uniti tre anni prima, aveva investito tutti i paesi europei a livello generalizzato. Nel 2009, infatti, il PIL aveva subito forti riduzioni dappertutto e il -5,0% registrato dall’Italia, era in compagnia del -3,2% del Regno Unito, del -2,4% della Germania e del -2,2% della Francia.
Debito pubblico insostenibile?
Il debito pubblico dell’Italia, tuttavia, aveva toccato il 120% del PIL (al pari di quello della Grecia) mentre quello di tutti i paesi citati non superava l’80%. Tale livello, in una UE votata alle politiche economiche monetaristiche e non a quelle di sviluppo in termini reali, era considerato di difficile sostenibilità. Oggi, con il debito pubblico giapponese schizzato al 243% e quello degli Stati Uniti al 160%, il 120% italiano di allora (che, nel frattempo, ha superato il 130%) è considerato sostenibile da economie molto meno industrializzate di quella italiana, come la Spagna, l’Irlanda e il Portogallo.
All’epoca, invece, l’agenzia internazionale Standard’s & Poor’s declassò di tre categorie il rating di affidabilità dell’Italia sul fronte della propria solvibilità del debito sovrano e, contemporaneamente, i mercati furono pervasi dal panico. Lo spread tra i titoli italiani del tesoro e quelli tedeschi superò i 500 punti, quando, sino al 2008, era rimasto al di sotto dei 100. Ciò significava che per finanziare ulteriormente il proprio debito pubblico, l’Italia doveva corrispondere un interesse superiore del 5% a quello richiesto dalla Germania.
Un “malato” guarito?
La “malattia” economica dell’Italia, dunque, nasce come crisi di solvibilità del debito pubblico e non come crisi specifica dell’economia reale. Nel 2011-2013, le azioni del governo hanno contribuito a riportare lo spread Bund-BTP a livello accettabile, grazie a incrementi del prelievo fiscale (più sostenute quelle di Monti; moderate quelle di Letta) e alla messa in sicurezza – per i conti pubblici – del sistema pensioni (i cui effetti, però, si vedranno a lungo termine). Decisiva, tuttavia, è stata l’azione della BCE di Mario Draghi che provvede tuttora ad acquistare i titoli italiani quando il livello dello spread risale oltre un certo limite.
Un “malato” guarito o, addirittura, una malattia immaginaria, quella dell’Italia? Non proprio. I dati dell’economia reale sono inclementi, con un tasso di disoccupazione pari all’11,4% (3 punti più del 2010) e il PIL annuo che, nel 2015, ha registrato un misero +0,8% e che, quest’anno, potrebbe scendere vicino allo zero. Il livello pre-crisi della disoccupazione italiana, infatti era assolutamente in linea con quello delle maggiori potenze economiche europee e, addirittura, migliore di quello della Francia.
Nel frattempo, in Francia si è assestata intorno al 10,8% e, in Germania è scesa al 5,3%. L’incremento annuo del Pil di tutti gli Stati europei, sia pur di poco, è comunque al di sopra di quello dell’ Italia 2015-2016. Anche quello degli altri “malati”, come Spagna, Irlanda e Grecia. La crescita lenta dell’Italia è però una malattia che prescinde dagli effetti della recessione mondiale del 2008 e risale almeno al 1992. E’ da quell’anno, infatti, a leggere i dati, che gli investimenti produttivi, nel nostro paese, hanno un declassamento. Perché?
Investimenti privati: calma piatta
Il motivo è esattamente quello che ha determinato la crescita abnorme del debito pubblico italiano sino al livello attuale: l’economia italiana, per almeno un venticinquennio (1969-1992), è stata sostenuta quasi esclusivamente dagli investimenti pubblici. Quando, a partire dal 1992, ciò è stato possibile solo in misura molto ridotta, a seguito degli impegni assunti con il Trattato di Maastricht, la crescita media del Pil italiano non ha mai superato l’1-1,5% annuo. Ma la colpa non è tutta dell’ Unione Europea e delle sue politiche monetarie, comunque inefficaci sotto il profilo della crescita.
Un’economia che cresce esclusivamente solo con gli investimenti pubblici è un’economia carente sotto il profilo imprenditoriale. Se l’imprenditoria italiana non investe, non è colpa dell’Europa. Diversamente, non si comprende perché quella tedesca, olandese o scandinava, con un livello di investimenti pubblici inferiore o analogo a quello consentito all’Italia, ha permesso ai loro paesi di uscire brillantemente dalla crisi.
Nel secolo scorso, l’economia italiana era sorretta da un’unica azienda multinazionale, la FIAT, e da una miriade di piccole imprese. Oggi il numero delle auto prodotte dalla FIAT in Italia è esattamente il 50% di quello prodotto nel 1990, mentre in Germania, la produzione è sestuplicata. Ciò significa che è diventato fondamentale l’apporto delle piccole imprese che, nel frattempo, sono diventate “micro-imprese”, attestandosi al livello medio di soli 1,75 lavoratori/occupati per azienda.
Si è sempre detto che la piccola impresa è la forza dell’Italia, ma è una favola messa in giro dalle lobby, per ottenere sempre maggiori aiuti finanziari dallo Stato, in cambio di voti al politico di turno. Uno studio a livello europeo ha dimostrato che le imprese italiane, più sono piccole e più sono fonte di inefficienza produttiva. Sicuramente hanno una percentuale di fallimenti e un livello di insolvenza con gli istituti creditizi assolutamente sconosciuto nei paesi europei.
E’ questa la vera malattia dell’Italia.
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