Seconda Guerra Mondiale vs Coronavirus. Il verdetto di nonna Aida

A confronto due tra i periodi più bui della nostra storia, raccontati da nonna Aida. L’intervista alla novantunenne residente nel trevigiano che ha avuto la fortuna, o sfortuna, di vivere entrambe le esperienze.

In televisione molti lo affermano: “Siamo in guerra”. Già. Tutti uniti, seppur a debita distanza (come ci impongono) contro il nemico comune, il Coronavirus, nome in codice COVID-19.

Ma quali sono esattamente le somiglianze e le differenze tra la situazione ai nostri giorni e quella che si viveva in tempo di guerra nel secolo scorso? L’abbiamo domandato a chi durante la guerra c’era, e se la ricorda pure molto bene: nonna Aida, nome in codice ÀIDA-91, con l’accento sulla prima lettera, com’è conosciuta da tutti.

Nonna Aida, 91 anni, originaria di Monastier di Treviso; un passato da studente modello durante le scuole elementari e da contadina dopo, un presente da nonna affetta da insufficienza renale con scompenso cardiaco. Per i medici soggetto vulnerabile al Coronavirus, per tutti i compaesani la memoria del passato. Abbiamo voluto condividere una sintesi della conversazione telefonica che abbiamo avuto qualche sera fa; crediamo che, malgrado il tono ironico e leggero, ciascuno di noi potrà sentirsi arricchito di una sapienza e allo stesso tempo di una semplicità che hanno un sapore antico.

[…] Nonna Aida, abbiamo pensato di farti un’intervista sull’analogia tra Coronavirus e Seconda Guerra Mondiale…

Un’intervista su che? – La nonna è un po’ dura d’orecchi.

Sull’analogia, il confronto tra il Coronavirus e la guerra.

Ah, ho capito. A proposito, famme un ben: ricordati di chiedere a tua mamma dove sono le camicie da notte, perché Rose, la badante, non le trova.

Perché, cosa ci devi fare con le camicie da notte?

Perché se devo andare in ospedale almeno ho il guardaroba già pronto.

Ma hai già deciso di andare in ospedale ancor prima di essere contagiata?

Lo sai che mi gò na certa età. E prendo sette pastiglie al giorno…

Sì, ma credo che se sarai contagiata le camicie da notte saranno la preoccupazione minore.

Va bene va bene, dopo le chiedo. Allora, cominciamo con una domanda diretta: hai più paura adesso o ai tempi della guerra?

Se devo essere sincera, ti dico che ho più paura adesso. Tutto sommato durante la guerra continuavamo a fare la vita di tutti i giorni. Certo, c’erano i partigiani, e una volta i tedeschi, arrivati da Jesolo, se gà fermà a sparare proprio nella nostra strada e ci hanno requisito i buoi dalla stalla. C’erano i bombardamenti, si sperava sempre che non si avvicinassero; a volte siamo anche scappati tra i campi. Però nei nostri paesi non ci sono state molte vittime, anche se continuavano ad arrivare notizie dei caduti al fronte.

Capisco, ma mi chiedo: chi ha combattuto in trincea deve aver provato molta paura, non è così?

Chiaramente le cose erano diverse per chi è stato in prima linea. Anche mio padre ha combattuto durante la Prima Guerra Mondiale, però io non ero ancora nata, perciò non so dirti di più.

Lo sai che nel 1918 ci fu il virus dell’influenza H1N1, la cosiddetta “influenza spagnola”? Si ipotizza che allora avesse provocato qualcosa come 100 milioni di decessi.

Sì, ne ho sentito parlare. Tua bisnonna avrebbe saputo raccontarti meglio. Ma, adesso che ricordo, prima di sposarsi col bisnonno si era trasferita da San Donà a Monastier per cambiare aria, perché aveva una qualche malattia; aveva addirittura perso i capelli. Forse anche lei era stata contagiata; sì, ricordo che a volte ci parlava della “febbre spagnola”.

E cosa mi dici del coprifuoco? Oggi siamo costretti a restare in casa tutto il giorno, una sorta di coprifuoco perenne. Un tempo invece in cosa consisteva?

Bisognava rientrare a casa entro una certa ora; per strada c’erano persone che sparavano.

Pensa che una volta mio papà andò in giornata a Padova in bicicletta per annunciare la morte di un mio zio. Figurati, quella volta la gente comune non aveva né la macchina né il telefono. Stava percorrendo la strada del ritorno quando si è fatto buio. Arrivato a Casale sul Sile, lì dove c’è l’attraversamento del fiume, el paron della piattaforma mobile gli ha chiesto dov’era diretto e gli ha consigliato di farsi ospitare da qualche conoscente della zona: tornare verso casa sarebbe stato troppo pericoloso. E così ha fatto, passando la notte nella stalla di una famiglia di parenti. Immagina che paura la bisnonna… Non l’ha visto rientrare quella sera, perciò pensava che l’avessero ucciso…

Cosa mi racconti invece della solitudine? Oggi il divieto di uscire ci mette a confronto con questa realtà, che per molti è un’esperienza nuova.

In realtà io non ho mai avuto tanti contatti. Un tempo c’era più solitudine, ma più fratellanza. E poi il coprifuoco era solo di sera, durante il giorno ci si poteva muovere abbastanza liberamente, perciò il problema era meno sentito. È un sacrificio che si deve fare se può essere utile per la società. E poi oggi abbiamo la tecnologia, le videochiamate, tutte quee robe che non so neanche come si chiamano… Forse non siamo poi così soli.

E una volta come si passava il tempo la sera?

Una volta non c’era nulla, niente televisione, niente telefono. Davvero, nulla, né prima della guerra, né durante la guerra. Si faceva il “filò”: ci ritrovavamo nella stalla per stare un po’ in compagnia e al caldo; si giocava a carte, si cantava (non a caso mi chiamo Aida), si ballava. In casa eravamo in molti, perché c’era bisogno di manodopera per i campi. Fino al 1939 eravamo trentatré persone nella stessa casa.

Oggi sembra sempre più difficile mettere il dito e porre dei limiti alla libertà delle persone. Nonostante le imposizioni sempre più restrittive, molti non ci stanno a rispettare le regole e si ostinano a rivendicare la propria libertà.

È ingiusto, è una vera cattiveria. Questo virus può colpire chiunque. Ci vuole più spirito di condivisione. La gente dice: “Ah, i more sol che i veci…” (muoiono solo i vecchi), ma non è vero, tutti abbiamo una dignità e tutti siamo vulnerabili a questo male. Lo dobbiamo anche ai medici e a tutti quelli che si impegnano per il bene comune. In tempo di guerra, se c’era il dovere di restare a casa, si restava a casa. Nessuno si lamentava; ci si accontentava di quello che c’era.

E secondo te è evidente questa differenza tra oggi e un tempo?

Sì, senza dubbio. Una volta c’era troppo poco, oggi c’è troppo. Spesso più hai e meno sei disposto a rinunciare.

Quali sono le ragioni per cui è avvenuto questo cambiamento nella mentalità? C’entra qualcosa la religione?

Una volta c’era sicuramente più devozione per la Chiesa, c’era più partecipazione. Non ci si perdeva mai una novena di Natale, o il ringraziamento l’ultimo giorno dell’anno, o altre feste che adesso no me vien in mente. Questa era la nostra libertà. Sì, dixemo (diciamo) che tutto si può riassumere così: c’era più religione.

Senza religione ci può essere comunque la consapevolezza del senso del dovere?

Sì, ci può essere, ma è più difficile. La religione vuol dire molto.

Specialmente in questi giorni vediamo un’esplosione dell’utilizzo dei social network come strumento di solidarietà. Molti ragazzi cercano in questo modo di combattere la noia e di sdrammatizzare la situazione difficile, ma spesso lo fanno per mezzo di immagini e commenti apparentemente frivoli e di scarsa sostanza. Nelle sue omelie trasmesse dalle reti televisive, invece, il patriarca di Venezia ci fa riflettere sulla piccolezza dell’uomo e sulla necessità della riscoperta di valori più forti e della fede. Quanto la religione può aiutare ad affrontare la vita quotidiana e a “combattere la noia”?

Te me fa domande diffisii, ciò! Ti dico solo che una volta la fede era molto più viva. Si sentiva lo spirito del sacrificio e della penitenza; oggi tutto questo è quasi scomparso. Un tempo recitavamo le penitenze, che chiamavamo “fioretti”. Lo facevamo perché ci veniva imposto, ma non è che fossimo dei bigotti; era la fede, la sentivamo nostra. E la fede ci aiutava ogni giorno; la noia non era più un problema, non la sentivamo, semplicemente.

Cosa ne pensi delle decisioni prese dal governo italiano?

Una volta tanto in Italia possiamo dire di essere stati i primi, e che gli altri stati dell’Europa ci hanno imitati.

In un primo momento il governo è stato molto cauto con la chiusura delle attività produttive, per il timore delle ripercussioni economiche. Secondo te è corretto porre in primo piano l’economia piuttosto che la salute pubblica?

Il fatto è che non è possibile chiudere tutto: la gente deve pur continuare a mangiare e a disporre dei beni di prima necessità. Già vivevamo una situazione di crisi prima del virus; se fermi tutto, xé un casin… È giusto fare i controlli e far rispettare le regole. Ma se continuiamo a consumare e non produciamo, come si fa? I supermercati continuano a restare aperti, perciò non non serve precipitarsi a fare scorta di cibo. In tempo di guerra noi eravamo contadini, il cibo non ci mancava perché era di nostra produzione. Chi viveva in città era più sfortunato: i generi alimentari erano razionati e te li davano solo con la tessera. Ricordo che uno zio veniva a casa nostra da Como per poi riportare alla sua famiglia gli alimenti che lì non si trovavano.

Invece in tempo di guerra quali erano le priorità del governo?

Eh, allora di fabbriche ce n’erano poche; qui c’erano solo contadini. E chi non aveva le terre si spostava in Lombardia o in altre zone. Quella volta c’erano i fascisti; per studiare alle scuole elementari bisognava pagare una lira per l’iscrizione e sei lire per la tessera fascista. Se pensi che i figli da mandare a scuola erano tanti, diventava difficile pagare tutte le spese. Oggi tante persone si lamentano e dicono di essere povere. Chi lo dice, spesso non sa neanche cosa sia la vera povertà. Una volta si era poveri, non ora.

Grazie nonna Aida per le tue parole preziose. Vuoi aggiungere qualcosa a cui tieni particolarmente?

No no, se mi interroghi io so rispondere, se no mi no gò fantasia. Non ho studiato tanto; sono arrivata alla quarta elementare. Però ero la più brava a scuola.

Beh, considerando la tua età sei ancora lucida e la memoria non ti tradisce.

Per ora teniem bottaSperen de continuar così! […]

Chiudiamo con un buon auspicio: anche alla luce del messaggio di nonna Aida, cogliamo ciò che di positivo ci offre questa esperienza. Impariamo a rimettere in primo piano valori come la vita, l’unità, il bene comune e il rispetto. Non lasciamoci sfuggire questa opportunità.

1 risposta

  1. Arianna

    Bravo Lorenzo, interessante confronto! Simpaticissima nonna Aida, aspettiamo altre sue perle di saggezza

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