Roma Capitale d’Italia compie centocinquant’anni

Roma Capitale. Esattamente il 20 settembre 1870 gli italiani entrarono in Roma. Poi ne fecero la loro Capitale. Sì, perché quando fu proclamata l’Unità d’Italia, il 17 marzo 1861, mancavano ancora all’appello Venezia e Roma. La prima fu riunita con la III guerra d’Indipendenza (1866), mentre per la Città Eterna si dovettero attendere altri dieci anni. A Roma, infatti, sedeva Papa Pio IX che regnava sullo Stato Pontificio. Nel frattempo il Re d’Italia, Vittorio Emanuele II risiedeva a Torino e, qualche anno dopo, si sarebbe trasferito a Firenze.

Il processo non fu incruento perché, in quel decennio, Roma era difesa dall’esercito francese, armato dei modernissimi fucili chassepots. L’imperatore dei francesi, Napoleone III, pur alleato dell’Italia, infatti, si era issato a difensore del potere temporale dei Papi. Il governo e il popolo italiano, al contrario, erano compatti nel volere Roma come Capitale del nuovo Stato. Ciò a dimostrazione che il regionalismo, oggi tanto sbandierato, non ha profonde radici culturali, in Italia.

Roma Capitale o morte!

Il partito che maggiormente aspirava a riunire Roma all’Italia era quello repubblicano di Mazzini e Garibaldi. A tal fine i due anelavano all’insurrezione popolare. Già nel 1860, dopo aver conquistato l’Italia meridionale con i suoi Mille, Garibaldi era intenzionato a completare l’opera marciando anzitempo su Roma. Fu però fermato proprio dall’esercito di Vittorio Emanuele II, costretto a ciò dal Bonaparte. Poi nel 1862, Garibaldi ci riprovò. Sbarcò nuovamente in Sicilia e, al grido di «Roma, o morte!», raccolse un certo numero di volontari. Stavolta l’esercito italiano lo accolse a schioppettate sull’Aspromonte e l’Eroe dei due Mondi – che era anche deputato al Parlamento – fu ferito al malleolo.

A questo punto intervenne la diplomazia. Era allora Ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta, appena trentottenne ma già un gigante delle relazioni diplomatiche. Il Venosta convinse Napoleone che mai e poi mai, l’Italia avrebbe torto un capello al Papa. Tanto è vero che il Re era pronto a spostare definitivamente la Capitale a Firenze, in cambio del ritiro del contingente francese da Roma. Il Bonaparte ci cascò con tutte le scarpe.

Il castello di carte del Visconti Venosta (convenzioni di settembre) durò solo tre anni. Poi intervenne nuovamente Garibaldi a spazzarlo via. Entrò con i suoi volontari nello Stato Pontificio, approfittando di un’insurrezione condotta dall’eroina Giuditta Tavani Arquati. Si fece prima precedere dai fratelli Cairoli che, purtroppo morirono combattendo a Villa Glori (attuale Parco della Rimembranza). Poi batté i pontifici a Monterotondo ma fu sconfitto sanguinosamente dai francesi a Mentana.

L’operazione militare fu conseguente alla disfatta francese di Sedan

Ben presto, però, la ruota della storia cominciò a girare frettolosamente. Il Regno di Prussia dichiarò guerra alla Francia e le inflisse una dura sconfitta a Sedan (agosto 1870). I tedeschi entrarono a Parigi e, nel salone degli specchi della reggia di Versailles, proclamarono l’Impero di Germania (II Reich). Nel frattempo, il contingente francese posto a difesa dello Stato Pontificio era rientrato in patria, Napoleone III era fuggito ed era stata proclamata la Repubblica. Il furbo Visconti Venosta capì che non c’era tempo da perdere.

Dopo aver sondato le cancellerie europee, il Venosta fece firmare al re una lettera per il Papa, nel quale gli si chiedeva «con affetto di figlio, con fede di cattolico, con lealtà di Re, con animo d’italiano» di far occupare dall’esercito italiano «le posizioni indispensabili per la sicurezza di Vostra Santità e pel mantenimento dell’ordine». Il Papa rispose: «Io posso cedere alla violenza, ma dare la mia sanzione a un’ingiustizia, mai!». Il ricorso alle operazioni militari divenne quindi inevitabile.

Forse il Papa aveva la testa ai lavori del Concilio Ecumenico Vaticano I, dove aveva appena fatto approvare dai cardinali il dogma dell’infallibilità papale. Fatto sta che l’esercito italiano mobilitò circa 50.000 uomini. Li comandava il generale Raffaele Cadorna, padre e nonno di altri omonimi generali che ritroveremo nella storia d’Italia. La II divisione, al comando di Nino Bixio occupò Viterbo e, con l’aiuto della flotta, Civitavecchia. Poi si diresse verso Roma. Il generale Angioletti, entrando da sud, occupò Frosinone e Velletri per poi convergere verso l’Urbe. Il 20 settembre 1870, di fronte a Porta Pia, i due generali si riunirono con il grosso dell’esercito, formato dalla XI, XII e XIII divisione.

Per Roma Capitale caddero 49 soldati italiani e 20 papalini

Le mura di Roma, erette dall’imperatore Aureliano, furono prese a cannonate nel tratto tra Porta Salaria e Porta Pia. Fu aperta una breccia nella quale s’infilarono per primi i bersaglieri del 34° reggimento. La battaglia con i zuavi papalini durò dalle 9:35 sino a non oltre le dieci, quando quest’ultimi esposero la bandiera bianca. Subito dopo, gli italiani presero ordinatamente possesso della città, compreso il Castel Sant’Angelo ma lasciando al Papa il Vaticano.

La Presa di Roma costò all’esercito italiano 49 morti, compreso il comandante dei bersaglieri Giacomo Pagliari e 141 feriti. Una lapide li ricorda ad uno ad uno, nei pressi della breccia. Perirono anche 20 papalini e 49 furono feriti. Pio IX, il 1° novembre 1870 dichiarava “ingiusta, violenta, nulla e invalida” l’occupazione dei domini della Santa Sede. Il concilio Vaticano I fu interrotto e non fu più ripreso. Nel 1962, infatti, per aprire i lavori del Vaticano II, Giovanni XXIII dovette prima proclamare la chiusura del concilio precedente.

Un plebiscito sancì l’annessione di Roma all’Italia con 131.681 sì e 1507 no. Al fiume Tevere, invece, non andò tanto giù l’ingresso dei soldati italiani nella Città Eterna. Il 21 dicembre 1870, infatti, esondò provocando la più terribile inondazione dal 1637 ai giorni nostri. Con l’occasione,Vittorio Emanuele II prese il treno e visitò per la prima volta la sua nuova Capitale. Tra i combattenti della Presa di Roma, vi era anche il sottotenente Agostino Bardanzellu di Luras (SS), zio del nonno di chi scrive. A questi la nuova Capitale piacque tanto che, alcuni decenni dopo, vi si trasferì dalla natìa Gallura con i suoi nipoti.

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