
La separazione delle carriere è un termine non molto felice per indicare un diverso percorso professionale che tenga conto dei distinti compiti spettanti ai due diversi rami della magistratura: i pubblici ministeri e i giudici propriamente detti.
Inquirenti e giudicanti
I primi vengono chiamati magistrati inquirenti, mettono in moto la macchina processuale (promuovono l’azione penale) iniziando e conducendo le indagini, e sostengono poi l’accusa nella fase dibattimentale.
I secondi valutano le prove raccolte dai P.M. per giungere ad una sentenza che assolva o condanni l’inputato.
I magistrati inquirenti sono i Procuratori e i Procuratori generali della Repubblica, rispettivamente presso i Tribunali e le Corti d’appello. Il Procuratore Generale presso la Cassazione è un P.M., ma si considera magistrato requirente perché non fa più indagini ma requisitorie cioè richieste (per lo più accusatorie).
I magistrati giudicanti sono i giudici di Tribunale, i consiglieri di Corte D’Appello, i consiglieri della Corte di Cassazione e i presidenti dei relativi collegi. Sono altresì magistrati giudicanti i G.I.P. (nelle due funzioni di giudice per le indagini preliminari e giudice dell’udienza preliminare) e i giudici del Tribunale del riesame.
Questi ultimi sono gli organi di controllo sulle ordinanze di custodia cautelare (anticamente carcerazione preventiva) e su quelle di natura patrimoniale (sequestri). (In verità ci sono anche misure personali ulteriori non custodiali e interdittive).
Il progetto di riforma
Questa struttura ordinamentale ha sostituito quella precedente che si inseriva in un sistema detto rito inquisitorio per configurare il nuovo rito accusatorio. Oggi si vuole nettamente distinguere la fase iniziale in cui si accertano i fatti-reati e si individuano i supposti colpevoli, dalla fase consecutiva in cui si valuta la responsabilità e, in caso di condanna si commisurano le pene.
Nonostante questo mutamento della dialettica processuale i due soggetti in questione, P.M. e Giudici restano in qualche modo commisti: appartengono allo stesso ordine, provengono dallo stesso concorso, occupano le stesse sedi, si frequentano come colleghi, si consultano fra loro fuori dai momenti e dalle forme consentiti dalle procedure. Non solo ma il P.M. può, attraverso un trasferimento o una promozione diventare giudice e viceversa. Proprio questo la riforma intende evitare.
Tutto ciò sconvolge l’assetto processuale che vuole che il P.M. sia una parte (in genere l’accusatore) fronteggiato da un’altra parte (il difensore). Questa dicotomia fa sì che il giudice possa trarre dalla prospettazione di due tesi antitetiche la sua decisione che si pone quindi “super partes”. È questo il principio del “contraddittorio” che ispira il metodo processuale così come quello sperimentale ispira quello scientifico.
La riforma che si progetta è quella non già di fare del P.M. una sorta di superpoliziotto estraneo all’ordine giudiziario ma un magistrato propositivo che si avvale dei suoi poteri per offrire al giudice il materiale su cui giudicare, indicando le fonti di prova o addirittura acquisendo direttamente le prove che potrebbero con i ritardi tecnici scomparire. Non vedo perché l’associazione magistrati sia contraria a questa riforma a meno che non sia alimentata dal timore che porti il P.M. nell’area del potere esecutivo con tutte le implicazioni negative che ne conseguirebbero. Ma questo pericolo si può scongiurare consentendo al P.M. d’essere “parte” solo in senso tecnico restando un magistrato indipendente che, sia pure in un’ottica “punitiva”, opera al servizio della Giustizia.
Il CSM (Consiglio Superiore della Magistratura)
Un aspetto che invece non è da condividere della riforma in gestazione, una volta realizzata la separazione delle carriere, la proposta di creare per il P.M. una sorta di consiglio superiore, l’organo di autocontrollo e di autodisciplina della magistratura (CSM), parallelo a quello dei giudici. Il CSM deve restare unico per entrambi gli ambiti della funzione giudiziaria onde garantirne l’autonomia rispetto a qualunque altra autorità, compreso il Ministro della Giustizia che deve restarne estraneo occupandosi di sedi giudiziarie, di uffici di cancelleria, di carceri, con un limitato potere di indagine ispettiva in campo disciplinare, cioè volto a richiedere al CSM misure punitive nei confronti di magistrati rei di comportamenti disonorevoli, non già di errori decisionali per i quali provvede il sistema degli appelli e dei ricorsi.
In realtà la proposta di creare due distinti CSM intende ovviare ad una anomalia. I componenti del CSM, oltre quelli che sono prefissati dalla legge, o sono nominati dal Parlamento o sono eletti dagli stessi magistrati. Quelli eletti, detti componenti togati, sono in numero di 20. Oggi il numero degli eletti provenienti dalle schiere dei P.M. è sproporzionato. I P.M., che costituiscono solo il 20% dei magistrati, hanno una presenza superiore a quella dei giudici, creando uno squilibrio inaccettabile. Ma a ciò si può ovviare modificando il sistema elettorale in chiave proporzionale in modo che i P.M. abbiano una rappresentanza di 4 componenti contro i 16 dei giudici, senza sconvolgere dividendolo in due l’assetto del CSM che è un organo di rilevanza costituzionale. E si potrebbe, sempre in chiave di riforma, prevedere che i P.M. votino per i colleghi dello stesso ramo. Lo stesso per i giudici.
Questa modifica del sistema elettorale mi sembra più sensata di quella volta a sostituire l’elezione con un sorteggio, al quale l’associazione Nazionale Magistrati si è mostrata ostile considerandolo alla stregua di una tombola. Comprendo in qualche modo l’imbarazzo ma non lo sdegno e la protesta, dal momento che il sistema del sorteggio è già vigente nel nostro ordinamento per la nomina dei giudici popolari che andranno ad integrare i collegi di corte d’assise.
Teoria o esigenza pratica?
Quel che si è detto in chiave di principi è solo una questione teorica o trova ampia giustificazione in dati reali?
La cronaca giudiziaria dimostra che gli inconvenienti della vigente commistione delle carriere sono reali. Gli avvocati spesso lamentano che la vicinanza fisica degli uffici giudiziari e la frequentazione personale fan sì che i giudicanti prestino più ascolto ai colleghi inquirenti che ai difensori, non già per favorirne il successo ma per facilitarne il compito. Oggi un difensore, magari avvocato affermato e professore universitario deve fare lunghe anticamere ed aspettare favorevoli opportunità per conferire con un giovane sostituto o un GIP di prima nomina (sempre che ti riceva!), mentre fra di loro giudici e P.M. si incontrano quando vogliono o conferiscono telefonicamente. Io stesso ricordo d’essere stato invitato, quando ero sostituto procuratore, da un Presidente del Tribunale a conferire con lui per scambiare pareri su un processo delicato. Gli risposi che avrei chiarito la posizione della Procura il giorno dell’udienza, presenti i componenti del collegio e gli avvocati e che un colloquio riservato fra noi sarebbe stato inammissibile; altra volta non ebbi altrettanta fermezza e cercai di cavarmela più o meno diplomaticamente.
Questo delicato aspetto si è palesato drammaticamente durante i processi di “mani pulite”. Si ricordi che in tal periodo la Procura Milanese durante la fase delle indagini preliminari fece un ricorso massiccio (taluno oggi dice eccessivo per non dire abusivo) della custodia cautelare come non mai nella storia giudiziaria italiana. Io non giudico né come ex Magistrato né come semplice cultore del diritto. Dico soltanto che senza la disponibilità dei GIP e del Tribunale del riesame quello straripante operato dei P.M. non avrebbe avuto tanto spazio. Debbo spiegare che in passato il P.M. aveva un potere diretto e immediato di emettere ordini di cattura, mentre nel 1992 lo aveva perso e doveva chiedere il provvedimento di custodia cautelare dell’indagato al GIP. Non sono stati D’Ambrosio o Di Pietro ad incarcerare i vari imputati di corruzione ma il GIP, fosse esso Italo Ghitti o chi per lui. È storicamente provato che quasi mai il GIP milanese ha disatteso quelle richieste. E quasi mai il Tribunale del riesame (l’organo di controllo che può annullare il provvedimento del GIP) si è pronunciato a favore del reo appellante. La colleganza era diventata condiscendenza, non dico connivenza perché non intendo esprimere giudizi di liceità. Descrivo l’esistenza di un fronte comune fra P.M. e Giudici che è contrario al sistema accusatorio e al principio del contraddittorio.
Ce ne è abbastanza per pretendere una separazione delle carriere.
La specializzazione del P.M.
Ma ci sono anche altri motivi.
Occorre qualificare e specializzare il P.M. L’inchiesta non è un’arte o una vocazione: è un metodo che richiede da un lato una disposizione caratteriale, dall’altro una preparazione tecnico scientifica, una scuola professionale. Non si può lasciare che il singolo magistrato scelga questo compito solo perché si sente un Poirot o perché si considera un buon oratore. Oggi il concorso e il successivo tirocinio (che si svolge in un periodo di apprendistato chiamato uditorato senza funzioni) guardano soltanto alla preparazione giuridica. In effetti per rendere buone sentenze occorrono cultura legale, razionalità ed equità, ma per inquisire e requisire occorrono altri requisiti meno generici.
Molte delle assoluzioni pronunciate al dibattimento non nascono sempre dalla effettiva innocenza dell’imputato ma anche da un manchevole o maldestra conduzione delle indagini preliminari. Alla difficoltà dell’indagine o alla propria insufficienza un P.M. potrebbe sopperire ricorrendo alle misure carcerarie per ottenere una confessione; di qui la garanzia offerta da un operato del GIP non solo autonomo ma anche distaccato (nel senso che ho chiarito in premessa) dal PM.
Insomma, tra torti e ragioni, nel suo complesso, la separazione delle carriere è un obiettivo più che ragionevole.
Foto di Şinasi Müldür da Pixabay
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