Ricciardi e le ragioni del dolore

Nella postfazione di Il senso del dolore. L’inverno del commissario Ricciardi l’autore, Maurizio de Giovanni, immagina di tornare indietro nel tempo. Si ritrova all’inizio degli anni Trenta, seduto a un tavolino d’angolo del Caffè Gambrinus di Napoli in attesa di essere raggiunto dal commissario Ricciardi. «Lo vedo arrivare come uno dei suoi fantasmi […], muovendosi svelto, a testa bassa, le mani nelle tasche del soprabito leggero». Si siede di fronte alla mente da cui è uscito e ha inizio un’intervista molto singolare. Parla di vita, di morte, ma soprattutto di dolore: il dolore dei fantasmi che vede sopravvivere nell’eternità del loro ultimo terribile istante da vivi. Sono tutti reduci da morti violente, ognuno di loro lo mangia un po’ dentro. 

Fantasmi: un dono e una condanna

De Giovanni chiede a Ricciardi delle sue visioni, lui risponde: «Io vedo il dolore. Vedo il rimpianto, la sofferenza. Sento l’eco dell’amore che scompare, gli artigli che si spezzano nell’ansia di trattenere l’ultimo lembo della vita che se ne va. Sento l’urlo che accompagna la caduta nell’abisso. Quello che sento è l’ultimo pezzo della vita, non il primo della morte». Un dono per il commissario, una condanna per l’uomo. 

I morti lo seguono, lo legano a sé riversandogli addosso tutta la loro sofferenza. Ci sono quelli come il tenore Vezzi che sono vittime di omicidi da risolvere e ci sono quelli che si mostrano anche se sulla loro morte non c’è niente da scoprire. La bambina con lo sterno sfondato che crede di essere la mamma della sua bambola, il bambino all’incrocio di Santa Teresa e il Museo che continua a chiedere scendo? Posso scendere? Il loro dolore penetra sotto la pelle di Ricciardi, gli appesantisce il cuore e si deposita tutto nei suoi occhi verdi che sembrano avere cent’anni. 

Il Fatto

Occhi che erano solo occhi di bambino prima che accadesse il Fatto: l’imprevisto che ha cambiato per sempre la sua vita. Una mattina di luglio di tanti anni prima il piccolo Alfredo Luigi Ricciardi gioca a fare Sandokan e rincorre una lucertola. Arriva alle sponde di un torrente e lì trova il suo primo fantasma: «L’uomo, che doveva essere morto, alzò la testa e la girò verso Luigi Alfredo  […]  lo guardò con gli occhi velati  e semichiusi. Le cicale smisero di frinire. Il tempo si fermò».

Da quel momento Ricciardi ha devoluto tutta la sua vita alla ricerca delle ragioni del dolore. Una missione che non ha scelto ma che l’ha scelto. Ricco e titolato avrebbe potuto vivere di rendita invece è entrato in polizia perché era il modo più facile per rendere giustizia ai suoi morti. Un obbligo inscritto nella sua natura da cui non ha potuto sottrarsi . «Provate voi, avrebbe detto se avesse potuto, a a sentirlo, tutto quel dolore: costante, perenne; in ogni forma».

Gli affetti

Un dolore che lo insegue da tutta la sua vita e che definisce perfino i suoi rapporti personali. Quello con la tata Rosa, che gli vuole un bene incondizionato ma che d’altra parte rappresenta una famiglia che manca. Quello con il fedele brigadiere Maione, che lo affianca nelle sue indagini e che in lui rivede una parte del figlio Luca morto in un’operazione di polizia. Legami che si inscrivono nel solco della sofferenza e che proprio per questo sono indistruttibili.

E poi c’è Enrica, la ragazza della finestra di fronte, e l’amore che Ricciardi prova per lei. Un sentimento vissuto da lontano, a sua insaputa corrisposto. «Non c’era sera che non passasse un po’ di tempo alla finestra, a vivere di riflesso la vita di Enrica: l’unica vacanza che concedeva al proprio animo straziato». Una figura dolce e romantica che sfoga le proprie lacrime solo quando nessuno la vede. Nessuno tranne Ricciardi, ombra nell’ombra che assiste come uno spettatore alla parte della sua vita che nessuno conosce. Il commissario vorrebbe avvicinarsi a lei ma pensa che l’unica cosa che potrebbe donarle sia la sua stanchezza e il suo dolore. «E come potrei parlarti? Che cosa ti potrei dare io, tranne la pena di vedermi eternamente esausto?»

Fame e amore

Il senso del dolore non è solo un libro noir che inaugura una fortunata serie di romanzi polizieschi. È un viaggio in un’esistenza tormentata che si fa carico del dolore di altrettante esistenze tormentate.  Ma anche un filtro grigio-blu attraverso cui emerge una Napoli dominata da «passioni che si infettano, che suppurano, che scoppiano e invadono le anime. Che portano al delitto».

Ricciardi crede fermamente che all’origine di ogni infamia ci siano la fame e l’amore, nelle diverse forme che possono assumere. Ma questo non basta a spiegare le ragioni del dolore perché le sfaccettature della fame e dell’amore sono infinite. E allora ecco cos’altro spinge il commissario a continuare a affondare le mani nella morte: la conoscenza. Perché in fondo il dolore è un sentimento dei vivi e coglierne le ragioni è un po’ come afferrare un lembo del senso della vita.

Fonte foto: gliaudaci.blogspot.com

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