Palazzeschi e l’avanguardia della provocazione

provocazione

Quando i bambini iniziano a imparare la Storia la prima cosa che la maestra traccia sulla lavagna è la linea del tempo. Una rappresentazione cronologia di eventi che anche se riportati sulla stessa retta rappresentano ognuno una frattura tra ciò che c’è stato prima e ciò che è avvenuto dopo. Anche la letteratura ha la sua linea del tempo ed è ricca di opere, personalità e movimenti che hanno segnato grandi cambiamenti. Dalla Scuola Siciliana alla Commedia di Dante, dal poema cavalleresco dell’Ariosto ai Promessi Sposi di Manzoni, dall’Infinito di Leopardi alla poesia delle piccole cose dei Crepuscolari… E poi ci sono quei movimenti che della rottura con il passato hanno fatto una vera e propria religione: le Avanguardie.

Una di queste è il Futurismo, fondato nel 1909 da Filippo Tommaso Marinetti con la pubblicazione del Manifesto di fondazione su “Le Figaro”. È il primo movimento d’avanguardia di diffusione internazionale, abbraccia vari campi dell’esperienza umana (letteratura, arti figurative, musica, politica, moda…) e ha come cardini fondamentali la dinamicità, l’attivismo cieco, il bellicismo, l’irrazionalismo. In letteratura è il movimento promotore delle parole in libertà, anche se non tutti gli intellettuali che si sono accostati al Futurismo le adottano come metodo espressivo. Aldo Palazzeschi ad esempio, le rifiuta.

Palazzeschi e il Futurismo

Palazzeschi è stato un futurista, ma nella cronologia della sua vita il Futurismo ricopre solo una fetta di anni giovanili. Si avvicina al movimento marinettiano spinto da una grande voglia di ribellarsi, di disintegrare a suon di risate sarcastiche la tradizionale identità di poeta. Ne esce perché oltre al senso di provocazione con i futuristi  non condivide altro. Oltre alle parole in libertà rifiuta l’ideologia bellicista promulgata da Marinetti con il manifesto Guerra sola igiene del mondo. Eppure alle sue due raccolte poetiche più importanti mette un titolo che rimanda al campo semantico della distruzione. Si intitolano entrambe L’incendiario, una viene pubblicata nel 1910 e una nel 1913. 

Al contrario dei marinettiani, l’unico incendio che Palazzeschi vuole appiccare è quello nell’animo di chi legge. La sua ironia è spinta, provocatoria. La sua allegria è sovversiva; nasconde un’amarezza profonda, sintomo di un’insofferenza indirizzata soprattutto alla società benpensante del tempo, alle sue convenzioni, alla sua ipocrisia. Vi contrappone una costante rottura dei tabù, un modo di poetare grottesco e irriverente che finisce per distorcere anche i topoi più longevi della letteratura. Si pensi ad esempio alla poesia Fiori, pubblicata per la prima volta in “Lacerba” nel 1913 e poi inserita nella raccolta L’incendiario dello stesso anno.

Il giardino della perdizione

Fiori è un componimento in versi liberi che mescola e rielabora forme metriche tradizionali per mimare un modernissimo discorso parlato. Si apre sul tema della primavera. Ma una primavera diversa da quella edenica e virtuosa della tradizione; bensì irrequieta, cassa di risonanza di “un’indefinita pesantezza” e di “un vuoto infinito” che grava sul cuore del poeta. Tutto gli risulta improvvisamente repellente: il banchetto, gli amici, le risate. Ma si rende conto che quella che lui chiama «sconcezza» gli parte da dentro (“un senso di moralità/, che in me non c’è”) e dilaga su tutto ciò che gli sta intorno.

Nemmeno il bellissimo giardino esterno al luogo del banchetto è immune alla perdizione. Dopo un’iniziale contemplazione delle «milioni di stelle amorose», delle «salde, robuste piante», dei fiori dai «profumi soavi» che aprono la strada ai pensieri più puri, ecco che entra in scena una «rosa voluminosa» che «si spampanava sulle spalle in maniera scandalosa il décolleté». Questa rosa rivela al poeta di essere una prostituta e di non essere l’unico fiore peccaminoso del giardino. Ci sono gli incestuosi fiori del cespuglio, la stupida ortensia che si fa sfruttare dal girasole, i garofani eleganti “che campano alle spalle delle loro amanti”, la viola che corrompe il piccolo ciclamino… 

La rottura con la tradizione

Sono tutti fiori che appartengono alla poesia tradizionale e che Palazzeschi deforma nella loro simbologia. La rosa simbolo di purezza diventa una prostituta, l’eleganza del garofano diventa quella di un ruffiano, la modesta viola diventa un’audace provocatrice di fiorellini… Non si salva niente e l’unico modo per uscire da questa «sconcezza» è quello di uscire fuori dalla natura. Ma siccome non si può, Palazzeschi ci ricama sopra un suggestivo esercizio letterario e nasconde l’amarezza per un mondo irrimediabilmente corrotto dietro una dissacrazione ironica e senza filtri.

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