L’arte racconta. Dido Belle: l’insolito caso di una schiava africana fra la nobiltà inglese

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Capita che i dipinti nascondano, tra una pennellata e l’altra, misteri e storie da raccontare. Ne è un esempio il ritratto di Dido Belle conservato nel palazzo di Scone a Perth, in Scozia.

Originariamente ritenuto di Johann Zoffany, il quadro fu successivamente attribuito a David Martin grazie al programma BBC Fake or Fortune? che per primo ne mise in discussione la paternità.

L’opera restituisce l’immagine della giovane Dido in compagnia della cugina Lady Elizabeth Murray. Nonostante la prima fosse figlia illegittima di un ufficiale navale e di una schiava africana, come ben ravvisabile dal colore della pelle, le due donne sono rappresentate –incredibilmente– su un piano pressoché paritario. Infatti, se oggi il Regno Unito conta una popolazione etnicamente mista e ben inserita nell’assetto sociale, nel XVIII secolo la situazione era del tutto differente: su una base di 7,5 milioni di britannici, meno di 25.000 erano neri e la maggior parte schiavi.

Secondo i costumi dell’epoca, una ragazza di tali natali sarebbe dovuta rimanere ai margini della scena alla stregua di un accessorio esotico. E invece Dido attira l’attenzione dello spettatore dimostrando un elevato livello sociale pur non nascondendo le sue origini africane: non a caso gli abiti lussuosi e i gioielli raffinati fanno da contraltare al turbante con la piuma di struzzo e al cesto di frutta sul braccio. Per di più la ragazza si tocca la guancia con un dito. Forse per evidenziare il colore della pelle? O per un semplice gesto giocoso?

Qualunque sia la motivazione, gli studiosi sono concordi nel ritenere che siano elementi volti a rimarcare una diversità caratteriale fra le due donne, non certo un differente status. A riprova di ciò, Dido appare sicura di sé e mostra uno sguardo fiero laddove la cugina assume un’espressione più mite e composta. Lady Elizabeth è ritratta mentre siede con un libro fra le mani in una posa del tutto convenzionale. Unico vezzo è la delicata ghirlanda che le cinge il capo. Un braccio, poi, è teso per toccare Dido in segno d’affetto: questa la dimostrazione tangibile di un legame assolutamente inconsueto in una società dove la tratta degli schiavi rappresentava un commercio ancora diffuso e redditizio.

Proprio a questa particolarità si deve la notorietà del dipinto di David Martin.

Ma chi era veramente Dido Belle? Scopriamolo insieme.

Una nuova vita in Inghilterra

Dido nacque in schiavitù nel 1761 dall’unione tra Sir John Lindsay, capitano di marina e figlio di un baronetto scozzese, e la schiava africana Maria Belle.

Il padre si era arruolato nella Royal Navy nel 1753 dimostrando grandi capacità come tenente sulla nave da fuoco Pluto al punto che, solo quattro anni più tardi, era stato nominato capitano di una fregata di nuova costruzione, la HMS Trent

All’epoca, le battaglie per mare erano affidate alle grandi navi di linea che ospitavano dai 60 ai 100 cannoni per un totale di due o tre ponti. Si trattava, però, di imbarcazioni costose e pesanti che richiedevano un equipaggio numeroso e ben addestrato. Per questo motivo erano affiancate dalle fregate che, avendo un solo ponte di cannoni, erano più piccole e leggere quindi più veloci. Tanto è vero che erano impiegate per le esplorazioni e le incursioni e, di conseguenza, i loro comandanti godevano di una certa indipendenza e prestigio. 

In particolare, la HMS Trent aveva il compito di pattugliare le Indie Occidentali Britanniche infatti, nel 1762, si sarebbe unita alle forze d’assalto di Sir Pocock per la conquista dell’Avana, uno dei migliori porti della zona. Il periodo storico era quello della guerra dei sette anni che, pur avendo come principali avversari Gran Bretagna e Francia, in realtà coinvolgeva gran parte delle potenze europee.

Lindsay, presumibilmente, incontrò Maria Belle su una delle navi spagnole che aveva catturato e la prese come concubina. Da lei ebbe Dido.

Una volta finito il conflitto, il capitano tornò in patria portandosi appresso la figlioletta con l’intento di affidarla allo zio materno William Murray, conte di Mansfield, che insieme alla moglie stava già crescendo una pronipote rimasta orfana di madre, Lady Elizabeth. Non era raro, infatti, per le coppie senza prole allevare figli di parenti in difficoltà o deceduti.

Così avvenne anche per Dido che fu battezzata nel 1766 a St. George’s, Bloomsbury. Pur non comparendo nel certificato come padre, con buona probabilità Sir Lindsay continuò a informarsi della figlia e aiutò anche Maria Belle che, ormai libera dalla condizione schiavile, avrebbe comprato nel 1774 un appezzamento di terra in America.

Con buona probabilità, Dido fu accolta da Lord Mansfield come compagna di giochi di Elizabeth con l’obiettivo di renderla, una volta cresciuta, l’assistente personale di quella che a tutti gli effetti era sua cugina. D’altronde, le ragazze erano coetanee per questo furono educate insieme nella magnifica residenza di Kenwood House condividendo la medesima vita elegante e privilegiata. Se per la legge coloniale Dido era una schiava, nella realtà era considerata un membro molto amato della famiglia.

Fu istruita nella lettura e nella scrittura, nella musica, nelle arti e anche nelle abilità sociali. E in tutte eccelleva; il filosofo James Beattie la incontrò quando aveva circa dieci anni e, nel suo libro “Elementi di scienza morale”, scrisse:

«Ha ripetuto alcuni pezzi di poesia con un grado di eleganza che sarebbe stato ammirato in qualsiasi bambino inglese dei suoi anni».

Oramai adulta, le furono demandate tutte quelle responsabilità tipiche delle nobildonne come la gestione del caseificio e degli allevamenti di pollame. Inoltre lo zio, che la teneva in grande considerazione, si serviva del suo aiuto per il disbrigo della corrispondenza.

L’ex Governatore del Massachusetts Thomas Hutchinson, dopo una visita a Kenwood nel 1779, scrisse a proposito di Dido:

«Era chiamata dal mio Signore ogni minuto per questo e per quello, ed egli dava la massima attenzione a tutto ciò che diceva».

Segno della fiducia e del rispetto che Lord Mansfield aveva per la nipote. Certo, era strano che una famiglia aristocratica concedesse una simile libertà ad una schiava tant’è che proprio Hutchinson definì la ragazza «né bella né gentile, abbastanza impertinente» come a sottolinearne lo stigma sociale.

Invero, le uniche differenze di trattamento con Lady Elizabeth risiedevano nel fatto che quest’ultima, essendo una figlia legittima, era una beneficiaria a pieno titolo. A Dido, pertanto, era concessa un’indennità di circa £ 30 -comunque dieci volte maggiore allo stipendio di un normale collaboratore domestico- mentre la cugina riceveva £ 100.

I contemporanei rimanevano interdetti di fronte alla predilezione che il conte le riservava e, presto, iniziarono a dire che quell’affetto non lo rendeva lucido ed imparziale nell’esercizio delle sue funzioni da magistrato. Così vociferarono anche nel 1772 nell’ambito di una causa destinata a fare la storia: Somerset vs Stewart.

Verso l’abolizione della schiavitù: la sentenza Somerset

James Somerset era uno schiavo africano al servizio dell’ufficiale delle dogane Charles Stewart.

In seguito ad un tentativo di fuga, era stato trascinato su una nave diretta in Giamaica con il chiaro intento di destinarlo al lavoro forzato nelle colonie. I suoi padrini di battesimo come cristiano, tuttavia, ritenendo quella detenzione illecita, avevano invocato l’habeas corpus nella speranza di garantirgli un giusto processo e, allo stesso tempo, avevano chiesto l’aiuto di Granville Sharp, rinomato attivista del fronte abolizionista.

La vicenda arrivò sul tavolo di Lord Mansfield che, ricoprendo la carica di Chief Justice, era il più importante giudice in Inghilterra. 

Consapevole degli interessi coinvolti, il conte dapprima tentò una soluzione extragiudiziale che però fallì miseramente. Nessun accordo fra le parti era possibile: Stewart non intendeva liberare lo schiavo mentre il team di Somerset, conscio della risonanza che avrebbe avuto il caso, voleva che il giudice si pronunciasse. Sottesa c’era la questione sulla legalità della schiavitù

Si giunse così a processo. Lord Mansfield camminava di fatto tra due fuochi: da una parte la cautela dell’uomo di legge, dall’altra l’affetto per la nipote Dido. E questo era evidente ai suoi contemporanei tant’è che un proprietario di schiavi, commentando la vicenda, aveva raccontato:

«Un piantatore giamaicano, a cui è stato chiesto quale giudizio avrebbe dato sua Signoria [rispose] “Senza dubbio…sarà liberato, perché lord Mansfield tiene in casa un nero che governa lui e l’intera famiglia”».

Passarono ben cinque mesi prima che Lord Mansfield giungesse alla conclusione che Somerset doveva essere dimesso perché nessuna legge positiva riconosceva l’esistenza della schiavitù:

«Lo stato di schiavitù è di natura tale da non poter essere introdotto per qualsiasi ragione, morale e politica, ma solo dalla legge positiva, che conserva la sua forza molto tempo dopo che le ragioni, le occasioni e il tempo stesso da dove è stato creato, viene cancellato dalla memoria: è così odioso che non si può soffrire nulla per sostenerlo se non la legge positiva».

Gli schiavi dunque avevano delle, seppur limitate, garanzie costituzionali -ivi incluso l’habeas corpus– e non potevano essere sequestrati dai padroni né deportati al di fuori del paese.

Tanto fu il clamore intorno alla sentenza giacché la comunità nera vide, in quelle parole, un trampolino di lancio verso l’abolizione della schiavitù. In realtà, la decisione si era basata più sugli aspetti legali che su quelli umanitari: liberare tutti gli schiavi avrebbe portato ad un evidente crollo economico difatti il giudice non aveva apertamente dichiarato illegale la schiavitù né aveva fatto menzione dei territori d’oltremare dell’impero britannico. Anzi, aveva precisato che la sentenza doveva applicarsi solo al caso concreto di Somerset.

Tuttavia, la pronuncia di Lord Mansfield continuò –e continua– ad essere vista da molti come la pietra miliare di quel tortuoso cammino che avrebbe portato nel 1807 alla fine della tratta attraverso l’Atlantico e poi, nel 1833, all’abolizione della schiavitù.

Ma, nel frattempo, cosa era successo a Dido?

Libertà

Nel 1788 Sir Lindsay morì lasciando una moglie ma nessun figlio legittimo. Il suo necrologio, sul London Chronicle, recitava:

«E’ morto, crediamo, senza alcuna discendenza legittima ma ha lasciato una figlia naturale, una mulatta che è stata allevata nella famiglia di Lord Mansfield quasi dalla sua infanzia e la cui amabile disposizione e le cui conquiste le hanno fatto guadagnare il massimo rispetto da tutti i parenti e i visitatori di Sua Signoria».

E infatti, quando anche Lord Mansfield morì nel 1793, Dido ottenne ulteriore prova di quell’affetto.

Il conte, infatti, consapevole della necessità di proteggere il futuro della nipote, ne aveva confermato ufficialmente la libertà assegnandole, inoltre, 500 sterline di eredità e altre 100 di rendita. A queste si sarebbero aggiunte ancora 100 sterline come lascito di Lady Margery Murray, una parente che aveva vissuto a Kenwood.

Nel 1794, Dido convolò a nozze con John Davinier che lavorava come maggiordomo per gentiluomini ed era giunto in Inghilterra dieci anni prima.

La coppia si trasferì a Ranelagh Street a Pimlico ed ebbe tre figli: i gemelli Charles e John nel 1795, William Thomas nel 1802. Grazie alle somme ereditate da Mansfield, la famiglia visse con agiatezza: poté assumere qualche servitore e anche garantire una buona educazione alla prole.

Dido Elizabeth Belle, la donna che non si era fatta imbrigliare dalle catene della schiavitù, morì infine nel 1804 all’età di 43 anni. La sua discendenza sarebbe però continuata fino ad Harold Davinier che, come un cerchio che si chiude, si sarebbe spento nel 1975 proprio in una ex colonia britannica, in Sud Africa, da uomo bianco ma soprattutto da uomo libero

Nella foto wikipedia, di pubblico dominio, ritratto del 1779 di Dido Elizabeth Belle accanto alla cugina Lady Elizabeth Murray

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