La rivoluzione del freddo

L’inverno ormai alle porte è la stagione in cui, a queste latitudini, facciamo di tutto per proteggerci dal freddo eppure senza il freddo, naturale o artificiale, la nostra vita sarebbe molto diversa.

Stufe, termosifoni, camini, sono indispensabili in ogni casa, quelli a cui chiediamo conforto e benessere durante la stagione fredda, e se chiedessero qual è l’elettrodomestico di cui proprio si non si potrebbe  fare a meno a pochissimi probabilmente verrebbe in mente il frigorifero, un tempo non lontano definito «frigidaire», che ha fatto la sua comparsa nelle case degli italiani solo in pieno boom economico.

Eppure la «rivoluzione del freddo» è, per il cibo che consumiamo abitualmente, qualcosa di paragonabile solo alla cottura e, più ancora della cottura ha mutato il gusto, le abitudini, gli stessi ritmi di vita (si pensi solo alla trasformazione della spesa da quotidiana a settimanale) dell’intera popolazione occidentale, aumentando a dismisura le possibilità di accesso al cibo, alle sue varietà e riducendo drasticamente lo spreco e quindi incidendo radicalmente sul tenore di vita.

L’evoluzione del concetto di freschezza

Nel linguaggio corrente il «cibo fresco» si collega istintivamente all’immediatezza della produzione, più raramente all’effettiva temperatura del cibo,  per la quale si preferisce l’aggettivo di freddo.

Uova fresche o freschissime, verdura fresca, formaggi freschi, latte fresco, più ancora pesce fresco, sono termini che restituiscono alla nostra mente un brevissimo lasso di tempo tra la produzione o la raccolta ed il consumo.

Quando pensiamo alla freschezza del cibo, in realtà, stiamo definendo l’integrità del cibo nella consapevolezza, che ci deriva da una memoria e da una sapienza antiche,  che il semplice trascorrere del tempo determina il decadimento del cibo frutto dei suoi grandi nemici: la proliferazione batterica e l’ossidazione.

La rottura del legame tra integrità e tempo è una delle sfide più antiche che il mondo animale ha dovuto affrontare per la sua sopravvivenza: condividiamo la conservazione del cibo, infatti, anche con altre specie: si pensi solo al seppellimento delle ossa da parte dei cani o al nascondimento della frutta secca da parte degli scoiattoli. Il  tayra, un piccolo mustelide centroamericano, nasconde le banane per farle maturare, mentre le formiche interrano scorte di foglie e funghi di cui si nutrirà in seguito l’intera colonia.

L’interramento per proteggere il cibo dalle intemperie ed allungarne la vita è una pratica  ancestrale che utilizziamo ancora oggi, ad esempio con le grotte per la maturazione e la conservazione dei formaggi.

A determinare questa necessità l’alternarsi delle stagioni e quindi di periodi in cui, a parità di consumo del cibo, la sua disponibilità varia in maniera consistente.

La maggior parte delle tecniche di conservazione più arcaiche, tuttavia, incide sull’integrità del cibo per il semplice fatto che lo manipola, talvolta con risultati eccellenti, si pensi solo al rapporto tra il latte ed il formaggio, talaltra con perdite significative di nutrienti, ed in particolare delle vitamine che sono essenziali per la nostra salute.

Sarebbe forse più corretto quindi sostituire «fresco» con «integro», ma residuerebbero comunque spazi di ambiguità: quello che noi chiamiamo latte fresco, infatti, non ha nulla a che vedere con il latte integro (che ora chiamiamo crudo) visto che subisce comunque delle manipolazioni, prima su tutte la pastorizzazione e la scrematura; viceversa le uova fresche sono effettivamente uova che hanno pochi giorni dalla data di deposizione.

La «scoperta del freddo» come alleato della conservazione dei cibi

Avendo a riferimento le due fasce geografiche, al di sopra ed al di sotto dell’Equatore (tra il 35° e il 60° di latitudine)  in cui il clima è temperato e si concentra la maggioranza della popolazione mondiale si può affermare che la «scoperta del freddo» come alleato della conservazione dei cibi sia strettamente correlata alle modificazioni fisiche che il cibo subisce a temperatura ambiente.

Il freddo, infatti, pur non eliminandolo completamente e non essendo uno strumento di sanificazione, rallenta considerevolmente il naturale decadimento degli alimenti.

Un decadimento che a quelle latitudini  avviene,  per buona parte dell’anno, a temperatura ambiente ovvero a quella temperatura degli ambienti interni, tra i  20° ed i 25° centigradi, in cui la vita umana è maggiormente gradevole e che, tuttavia, secondo le norme sanitarie, ricade in gran parte entro la fascia di temperatura (tra i 20° ed  40°) in cui si ha la massima proliferazione batterica responsabile, assieme all’ossidazione,  del decadimento.

Nella «fiscella» di Caravaggio, forse la più nota delle nature morte, la decadenza è evidente, palpabile, metafora della «vanitas». 

Nella nostra percezione sensoriale il freddo si collega alla sensazione epidermica che registriamo sia in presenza di un ambiente freddo, sia a contatto con un oggetto freddo e che, ancestralmente, colleghiamo alla neve ed al ghiaccio i quali peraltro, a differenza dell’aria fredda, sono agevolmente trasportabili e relativamente conservabili.

Neviere e ghiacciaie sono stati quindi i primi ambienti nei quali si è tentato, con alterne fortune, di conservare il freddo e quindi abbassare la temperatura degli alimenti posti a suo diretto contatto  sfruttandone le proprietà refrigeranti.

Esempi di ghiacciaie  si sono avuti in Cina sin dall’anno 1000 a.C., mentre è certo che anche i Romani le conoscevano visto che Petronio, nel suo Satyricon, cita una vera e propria cella frigorifera:  la «cisternae frigidariae».

Si trattava di ambienti interrati, per lo più circolari, nei quali la paglia (che ancora oggi rappresenta un valido ausilio alla conservazione interrata degli alimenti) aveva una funzione coibentante.

Questi ambienti, ovviamente, oltre che appannaggio solo delle classi più abbienti, richiedevano una vera e propria gestione sia per l’approvvigionamento della neve (che una volta compressa veniva trasformata in ghiaccio) o dello stesso ghiaccio sia per la loro periodica pulizia visto che l’acqua disciolta era comunque stagnante.

Le prime ghiacciaie domestiche fecero la loro comparsa intorno al 1600 ed anche in quel caso si trattava di ghiaccio naturale che, opportunamente tagliato in blocchi, veniva trasportato dalle zone montane a quelle temperate e conservato in ambienti esposti a Nord o in armadi di legno rivestiti di zinco in cui poi venivano conservati gli alimenti maggiormente deperibili, soprattutto le carni.

La refrigerazione, il poter godere a lungo di alimenti naturalmente freschi, è stata quindi per lunghissimo tempo, ad eccezione delle popolazioni abituate a convivere, ed in molti casi a combattere, con il freddo, tutto l’anno, un’esperienza elitaria o, nel migliore di casi, limitata al commercio, all’ingrosso o al dettaglio, mentre la maggior parte della popolazione suppliva all’assenza di strumenti di conservazione refrigerata con gli alimenti conservati, con la spesa quotidiana  oppure con tecniche che con i criteri di sicurezza alimentare odierni considereremmo quantomeno discutibili. 

Ancora nel 1917 un testo di cucina edito da Salani, «L’Arte della cucina», istruiva le massaie sulla conservazione delle carni suggerendo: «trattandosi di  conservarle per otto o dieci giorni in casa propria, l’unico mezzo che  possa mettersi in pratica con sicurezza è quello di garantirle dal contatto dell’aria, dall’umidità e dal calore. Si giunge a questo involgendo  la carne strettamente in un pezzo di tela bianca, e mettendola poi in  un vaso di terra ben pulito; si copre con un testo e si colloca in una  cantina asciutta, sotto un mucchio di sabbia ben secca. Si avverta che  il pezzo della carne deve riempire completamente il vaso, in modo che  non vi restino interstizi; e perciò vi si pigierà a forza, sovrapponendovi poi il testo, o coperchio, il quale si stuccherà all’intorno con gesso, affinché non penetri aria. Questo metodo vale per le carni grosse: mentre il pollame, gli uccelli, le lepri, gli agnelli, ecc., non presentano compattezza  sufficiente per escluderne l’aria, la quale si trova sempre nel loro interno». 

Per questo tipo di carne allora tra  la macellazione ed il consumo intercorreva un tempo relativamente breve, solitamente con una brevissima frollatura nel locale più freddo della casa, mentre gli animali più piccoli (galline, piccioni, oche, polli, conigli  ecc…), venivano acquistati ancora vivi e poi macellati e lavorati direttamente nelle case. 

Non tutti i mali vengono per nuocere: i mezzi di conservazione alternativi al freddo

Salumi e formaggi: possiamo immaginare una cucina che ne faccia completamente a meno? 

Dalla mortadella pronipote del mirtatum romano, alle infinite varietà di salame, di prosciutto crudo e cotto, passando per il guanciale e la pancetta, per il lardo e lo strutto e per i salumi di varia natura di bovini e di ovini non abbiamo che l’imbarazzo della scelta.

E poi i formaggi, nati, secondo la leggenda, da un errato trasporto di latte fresco in un otre fatto con uno stomaco di pecora (o più probabilmente di capra) in cui era rimasto un residuo di caglio e di cui, solo in Italia, vantiamo oltre un migliaio di varietà con  produzioni autoctone in tutte le Regioni.

Conserve, composte, marmellate di frutta e di verdura in cui zucchero e sale hanno fatto un lavoro oscuro, ma fondamentale per la conservazione.

Per non dimenticare  i sottoli ed i sottaceti, che arricchiscono le nostre insalate e gli antipasti, e il peperone crusco, Re incontrastato dei vegetali essiccati in competizione con i pomodori essiccati al sole.

Essiccazione, salatura, salamoia, affumicatura, conciatura, cottura in ambiente acido (aceto o più raramente vino) o zuccherino sono state per secoli le tecniche più a buon mercato e diffuse, grazie ad una sapienza che si tramanda ancora oggi, per allungare la vita degli alimenti.

Tecniche di conservazione arcaica che si trasformavano in riti collettivi.

Chi non ha partecipato all’imbottigliamento estivo della salsa di pomodoro, in una festosa catena di montaggio al cui vertice si collocava l’addetto alla tappatura delle bottiglie, si è perso sicuramente qualcosa.

Che dire poi della trasformazione domestica del lardo in strutto in cui le nonne separavano il grasso affiorante e maleodorante dai ciccioli, la parte magra, che venivano messi a friggere nelle padelle di ferro, difesi a colpi di cucchiarella dagli assalti rapaci dei bambini.

E infine la birra ed il vino: il nostro gusto sarebbe lo stesso se invece di stappare una buona bottiglia di vino o di riempire un boccale di birra avessimo accompagnato i nostri pasti solo con i loro corrispondenti freschi? 

Siamo sinceri: i vari «latti» di cereali non sono paragonabili, quanto al gusto, alla birra e men che meno il succo d’uva è avvicinabile al vino.

Se sin dagli albori della civiltà avessimo potuto godere esclusivamente di alimenti freschi e refrigerati  quante bontà ci saremmo persi?

La ricerca della creazione del freddo artificiale

Nonostante la diffusione e l’evoluzione degli alimenti conservati, la ricerca del mantenimento della freschezza del cibo, della disponibilità di cibi freschi, è stata incessante in tutti i popoli ed a tutte le latitudini ed il motivo, per quanto banale possa apparire, è che in assenza del consumo di alimenti freschi la specie umana si ammala e muore per colpa di una malattia subdola, ma letale  conosciuta sin da Ippocrate, Celso, Galeno e Avicenna: lo scorbuto, i cui sintomi,  che in assenza di cure possono condurre ad una lenta e dolorosa morte, sono apatia, debolezza, lividi ed emorragie cutanee, sanguinamento gengivale e perdita dei denti.

Ora sappiamo che lo scorbuto  è causato dall’assenza di acido ascorbico (o vitamina C), contenuto in misura prevalente e variabile negli alimenti freschi, ma seppure in modo empirico tutte le popolazioni hanno avuto contezza della necessità di un’alimentazione che si basasse in massima parte su alimenti freschi, ortofrutticoli in particolare, e così i più arditi navigatori della Storia, i Vichinghi, portavano sui loro affusolati drakkar barili di more di rovo, cavoli e aglio, mentre in estremo Oriente si coltivava a bordo delle navi lo zenzero.

Lo scorbuto ha massacrato gli equipaggi delle grandi esplorazioni moderne e si dice che la stessa leggenda del vascello fantasma, apparentemente intatto, ma privo di equipaggio, sia in realtà la storia di una nave falcidiata dallo scorbuto.

Nel continente americano lo scorbuto era conosciuto anche dai nativi americani e  dalle popolazioni precolombiane.

Gli Irochesi  utilizzavano per combatterlo l’infuso delle foglie dell’albero che loro chiamavano «anedda» e che s’identifica probabilmente nell’abete americano e con questo infuso salvarono dallo scorbuto l’equipaggio dell’esploratore Jacques Cartier.

I popoli precolombiani utilizzavano invece il peperoncino, che ha notoriamente un’alta concentrazione di vitamina C, l’acerola (Malpighia punicifolia o Malpighia glabra L.), detta anche ciliegia delle Barbados, che  ha una concentrazione di vitamina C superiore addirittura agli agrumi, e  la Yerba Mate, detta tè argentino o del Paraguay, da cui si ricava per infusione una bevanda popolarissima in Sud America ed in particolare in Argentina, che un tempo compensava la dieta iperproteica dei Gauchos.

La nascita della refrigerazione artificiale

Malgrado il succedersi dei brevetti è davvero difficile individuare una vera e propria invenzione della refrigerazione artificiale.

Nel 1748 il medico e chimico scozzese William Cullen studiò a livello teorico-pratico la possibilità di creare artificialmente il freddo mediante l’evaporazione dei fluidi. I suoi studi, tuttavia, non ebbero un’immediata ricaduta industriale.

Nel 1805 Oliver Evans, poliedrico, ma sostanzialmente incompreso, inventore statunitense, progettò un refrigeratore a vapore che nel  1834 il suo connazionale Jacob Perkins perfezionò, realizzò e brevettò.

Nel 1859 il francese Ferdinand Carré, mediante l’utilizzo di acqua ed ammoniaca,  mise a punto un  sistema di raffreddamento tramite liquidi refrigeranti e nel 1877 lo fece installare su di un piroscafo, il «Paraguay» per il trasporto di carne dall’Argentina alla Francia; trasporto in cui fu preceduto di un solo anno dal suo connazionale  Charles Tellier, che peraltro morirà nell’indigenza, che fece installare una macchina refrigerante di sua invenzione, che funzionava mediante etere dimetilico, su di  un piroscafo, l’Eboe ribattezzato  «Le Frigorifique».

Nel 1879  fu invece lo  «Strathleven»,  sul quale era installato un impianto di refrigerazione a compressione, che tornò a Londra da  Sidney con  un carico di carne fresca.

Il clipper «Dunedin», varato in Scozia nel 1874 e trasformato in nave frigorifera con una macchina ad  espansione d’aria prodotta dell’inglese Bell-Coleman, nel 1881  trasportò un carico di carne dalla Nuova Zelanda alla Gran Bretagna.

Non sorprende né che fossero i piroscafi i primi ad ospitare le macchine frigorifere da trasporto, né che l’oggetto del trasporto fosse la carne: i piroscafi offrivano una grandezza sufficiente per ospitare le ingombranti macchine dell’epoca ed avevano la possibilità di utilizzare il vapore come forza motrice, la carne era considerata la merce deperibile per eccellenza ed il surplus produttivo di carne dell’Argentina, dell’Australia e della Nuova Zelanda a fronte della domanda europea giustificava il costo dell’operazione.

Dimensioni e costi, oltre che la necessità, che si affermò progressivamente, di utilizzare l’energia elettrica furono, assieme alla pericolosità dei liquidi impiegati, la cui fuoriuscita poteva essere addirittura letale, i principali ostacoli alla diffusione del refrigeratore domestico.

Le potenzialità anche commerciali della refrigerazione diffusa erano, tuttavia, enormi e così anche Albert Einstein, assieme al suo ex allievo  Leó Szilárd, brevettò nel 1930 un suo frigorifero il quale, a differenza dei suoi concorrenti, non aveva parti mobili e funzionava a pressione costante utilizzando una fonte di calore, acqua, ammoniaca e butano.  Un procedimento su cui si è riacceso l’interesse contemporaneo visto che prescinde dalla presenza di una rete elettrica.

I primi frigoriferi domestici di massa iniziarono ad affacciarsi sul mercato statunitense dalla fine del primo conflitto mondiale agli anni ’30 contribuendo non poco a stravolgere l’immagine della cucina domestica che non aveva più al suo centro il focolare, ma gli elettrodomestici e che rappresentò il modello a cui s’ispireranno anche le cucine europee.

A rendere la refrigerazione un fenomeno di massa saranno le grandi aziende statunitensi,  Westinghouse e General Electric su tutte, e da loro si estenderanno progressivamente in Europa.

In Italia, come accennato, arriveranno con il boom economico nell’età d’oro degli elettrodomestici bianchi: frigorifero, congelatore, lavatrice e lavastoviglie che cambieranno completamente lo stile di vita e le abitudini degli italiani e soprattutto di quella parte crescente di essi residente in città.

Nel frattempo vi fu una sorta di periodo di transizione: le fabbriche del ghiaccio resero disponibile in ogni periodo dell’anno i blocchi da ospitare nelle ghiacciaie delle botteghe ed in quelle domestiche delle famiglie borghesi.

Le persone iniziarono a familiarizzare con la refrigerazione di cui oggi, sinceramente, e negli ambiti più disparati, non potremmo fare a meno.

Cibo e refrigerazione

Per la stragrande maggioranza della popolazione la refrigerazione è sinonimo di conservazione, ma in realtà proprio l’attitudine della stessa refrigerazione a mantenere nel tempo l’integrità del cibo ed a controllare la proliferazione batterica ne ha fatto un formidabile alleato  dei processi di trasformazione del cibo, anche di quello che, dopo la sua trasformazione,  conserviamo a temperatura ambiente.

Gli amanti dell’Arte Bianca, ad esempio, praticano tecniche in cui si alternano  periodi di lievitazione a temperatura ambiente e periodi a temperatura controllata in cui l’impasto viene refrigerato.

Il cornetto che accompagniamo al cappuccino nella colazione al Bar e che molti di noi preferiscono caldo non sarebbe possibile senza la refrigerazione della sfoglia, refrigerazione che entra anche nella produzione di biscotti e frollini al burro: la pasticceria del resto, compresa la gelateria, quella fredda per eccellenza, è il settore in cui il freddo è orma entrato in maniera preponderante. 

Il freddo concorre in maniera determinante nella maturazione delle carni (che noi chiamiamo comunemente frollatura) che si avvale oggi di sofisticati sistemi di refrigerazione e di controllo dell’umidità che, allungandone la durata, consentono di avere prodotti sempre migliori, soprattutto per i tagli nobili delle carni bovine.

Il settore, tuttavia, nel quale la rivoluzione del freddo ha inciso maggiormente, sradicando convinzioni e pratiche millenarie, è quello della produzione dell’olio extravergine d’oliva. 

Il surriscaldamento globale, il protrarsi di elevate temperature esterne ben oltre la stagione estiva  ha portato la refrigerazione sino al momento della raccolta e del trasporto, mentre gl’impianti di frangitura a temperatura controllata stanno sostituendo i vecchi frantoi con le macine e le presse meccaniche nella nuova consapevolezza del valore dell’integrità delle olive per il mantenimento delle loro caratteristiche organolettiche.

La cosiddetta «catena del freddo», cioè il mantenimento del cibo deperibile ad una determinata temperatura, obbligatoria per coloro che sono soggetti al sistema di autocontrollo alimentare, dovrebbe entrare come buona pratica anche nel trasporto e nella conservazione del cibo domestico visto che i vantaggi, in termini di gusto e salute, sono di gran lunga superiori al fastidio d’inserire il cibo nelle cosiddette borse frigo.

Alleato della refrigerazione tradizionale è inoltre l’abbattimento, cioè il trattamento dei cibi cotti, più raramente di quelli crudi, con una macchina, detta abbattitore ed ora disponibile anche a livello domestico, che fa scendere rapidamente la temperatura del cibo al di sotto delle soglie di maggiore proliferazione batterica, mentre sempre più spesso la refrigerazione si accompagna al sotto vuoto, cioè all’eliminazione dell’aria a contatto dell’alimento, così da affrontare contemporaneamente i nemici dell’integrità del cibo a cui abbiamo già fatto cenno più volte: proliferazione batterica e ossidazione.

Le nuove frontiere della refrigerazione

Nella vita quotidiana il frigorifero ha in gran parte sostituito la dispensa ed anche nel linguaggio comune «avere il frigo vuoto», magari dopo il ritorno da un viaggio o per scarsità di tempo, equivale a dire di non avere nulla da mangiare.

La tecnologia si sta rapidamente adeguando a questa sorta di pigrizia dell’acquisto del cibo, solo in parte giustificata dall’assenza di tempo.

Nella refrigerazione del futuro il frigorifero, ormai trasformato in uno strumento elettronico, sorveglierà la scadenza e lo stato di salute degli alimenti e, volendo, farà la spesa al nostro posto, rigorosamente a domicilio, magari sulla base di una dieta personalizzata, interloquendo direttamente con i fornitori.

Sarà un refrigeratore dal rassicurante aspetto vintage, bombato come quelli degli anni ’50, ma che in realtà nasconderà una piccola intelligenza artificiale ed al quale  delegheremo, dopo averlo fatto con  l’intrattenimento, anche il piacere della scelta del cibo.

Del recente passato della refrigerazione, di quando il frigorifero era un semplice elettrodomestico, rimarrà solo il mezzo limone avvizzito che ci guarda sconsolato dallo sportello del frigorifero.

Quello resterà sempre.

Foto di Sebastian Nikiel da Pixabay 

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