La «questione femminile» in cucina 

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Chiedersi se esista una «questione femminile» in cucina appare abbastanza retorico  e del resto non potrebbe essere altrimenti perché la cucina, oltre che essere parte integrante della vita quotidiana, è anche mestiere, professione e risente naturalmente del contesto sociale e quindi anche del rapporto tra i sessi.

Sulla base della percezione delle dirette interessate, cioè delle donne che lavorano a vario titolo nel settore della cucina professionale, può affermarsi che esso  è sostanzialmente maschilista nonostante vi siano decine di grandissime Chef che sono state in grado di sfondare il «soffitto di cristallo», di emergere con il loro talento, il loro impegno e la loro professionalità.

Nel linguaggio comune, ancor più che in quello di settore,  la parola «Chef» è  però ormai sinonimo di «cuoco uomo di alto livello» e per molti versi appare raffazzonato il tentativo dell’Académie Française di declinare il ruolo al femminile introducendo la parola «Cheffe», che  suona quantomeno posticcia.

In un diffuso luogo comune l’uomo cucina, la donna prepara da mangiare.

Eppure, andando indietro nel tempo, ci si rende conto che la «mascolinizzazione» della cucina è un fatto relativamente recente e che l’invenzione della figura dello Chef rasenta la contemporaneità e  si lega strettamente alla cultura borghese dell”800 e della prima metà  del ‘900.

La cucina nasce donna

La nascita della cucina, cioè della preparazione di cibi cotti, è strettamente legata a due eventi preistorici che hanno mutato il corso dell’evoluzione umana: la scoperta del fuoco e l’agricoltura.

Il rapporto tra evoluzione umana e scoperta del fuoco è stato a lungo indagato dagli antropologi ed i contributi più recenti  si devono al Prof. Richard Wrangham di Harvard il quale, elaborando la teoria evolutiva «the cooking hypothesis» (l’ipotesi culinaria), è giunto alla conclusione che  la scoperta del fuoco e della cottura dei cibi è stata determinante per lo sviluppo del cervello umano:  la cottura dei cibi, che li rende anche più digeribili, non solo ha consentito di risparmiare le preziose energie che i primissimi ominidi dedicavano alla digestione, ma ha permesso di  ampliare il novero dei cibi commestibili (si pensi solo ai cereali ed in generale a tutti i vegetali che non possono essere consumati crudi) inducendo alla stanzialità e  gettando le basi stesse dell’agricoltura stanziale.

Questa, infatti, si è legata, almeno inizialmente, all’uso del fuoco sia per liberare ampie aree di terreno fertile dalle alberature, sia come naturale fertilizzante del terreno.

In entrambi questi eventi il ruolo della donna è stato centrale e ha mantenuto la sua centralità sino all’epoca moderna.

La gestione del fuoco, infatti, e la stessa cottura dei cibi richiedono tempo ed attenzione costante: esigenze che hanno, con ogni probabilità, determinato il primo riparto stabile dei ruoli tra gli uomini, vocati alla caccia ed alla difesa, e le donne che, come naturale estensione del loro ruolo di nutrici della primissima infanzia e di madri, hanno iniziato ad occuparsi, quantomeno prevalentemente, del «focolare» e di tutto ciò che vi gravitava attorno: la cottura dei cibi, l’orticoltura (trasformandosi da raccoglitrici in contadine), i primi «animali da cortile» domesticati.

Quello che, in termini scientifici, ci hanno dimostrato l’antropologia e la paleoarcheologia (si vedano per tutti gli studi sul fuoco pubblicati dalla University of Chicago Press) ce lo ha comunque tramandato il Mito.

L’agricoltura è legata al mito di Demetra (la Cerere romana) dea dell’agricoltura e di sua figlia Persefone (la Proserpina romana detta anche Kore) sposa di Ade e dea degli inferi che in primavera e sino all’autunno si ricongiungeva a sua madre facendo rifiorire la terra al suo passaggio. 

I Misteri Eleusini, i più antichi riti segreti greci,  celebravano il ricongiungimento con una serie di riti esoterici in onore delle dee.

Atena, la Minerva romana, dea della sapienza è invece legata al dono dell’olivo anch’esso fondamentale per il nutrimento e legato al sacro in tutte le religioni occidentali.

Estia, da cui deriverà anche il culto romano di Vesta, dea della casa e del focolare è una divinità femminile e tutta femminile è la ritualità delle vestali chiamate a vigilare sul fuoco sacro affinché non si spegnesse mai.

Sacro,  nella religione cristiana, ma ancor prima nei miti e nei culti pre-cristiani, è il pane: in tutto l’Occidente la panificazione, rigorosamente declinata al femminile, è strettamente legata ad aspetti religiosi.

Lo ha illustrato Morena Luciani Russo al Convegno internazionale del 2015 «Le radici materne del dono», in cui ha evidenziato la presenza di forni rituali all’interno dei templi e tutta la simbologia pre-cristiana del pane interpretabile come espressione dello sciamanesimo femminile. 

«Madre»  è il nome del lievito naturale indispensabile per la panificazione e se in epoca romana la panificazione industriale era  appannaggio degli  uomini, il suo più famoso attestato, il sepolcro di Eurisace a Porta Maggiore,  è in realtà dedicato anche a sua moglie Atistia raffigurata, congiunta al marito, nel cosiddetto «gruppo del fornaio», le statue che ornavano il sepolcro ora esposte alla Centrale Montemartini.

Sante e Streghe in cucina

Nella decisione dell’Unesco con cui è stato riconosciuto alla dieta mediterranea il valore di patrimonio culturale immateriale dell’Umanità si legge: «Le donne rivestono un ruolo particolarmente vitale nella trasmissione delle competenze, nonché della conoscenza di rituali, gesti e celebrazioni tradizionali, e nella salvaguardia delle tecniche».

Un ruolo che, al di fuori delle mura domestiche, è stato assolto per secoli  anche dalla cucina conventuale alla quale si debbono una serie di capolavori amorevolmente tramandatici.

Vale la pena di ricordarne alcuni iniziando dai cannoli siciliani, nati dall’inventiva e dalle abili mani  delle suore di clausura del Convento di Santa Maria di Monte Oliveto a Palermo. 

Alle suore del convento della Badia del Cancelliere di Palermo si deve invece  la «zuccata», la zucca bianca candita ingrediente di tanti prodotti tipici della pasticceria  siciliana.

La frutta martorana, quell’insieme di piccoli capolavori di manualità e gusto fatti di una pasta simile al  marzapane, è stata inventata nel Monastero della Martorana, fondato a Palermo nel 1194 dalla nobildonna Eloisa Martorana. La leggenda narra che le monache, per non far trovare spoglio il giardino nel corso di una visita importante in pieno autunno, confezionarono dei frutti di pasta talmente realistici che, appesi che furono agli alberi, ingannarono l’illustre ospite che credette di assistere ad un piccolo miracolo della natura.

Al monastero  di Santa Rosa, sulla Costiera amalfitana, si deve  la sfogliatella napoletana col suo opulento ripieno di ricotta: nata nel XVIII secolo, approderà a Napoli, riscoperta dal pasticcere  Pasquale Pintauro, nella prima metà del 1800 diventando una delle preparazioni più famose della pasticceria napoletana.

Famosa quasi come la pastiera napoletana, che si tramanda di famiglia in famiglia, di generazione in generazione e quasi sempre in linea femminile, che originariamente prevedeva il farro al posto del grano e che, erede della tradizione dei pani rituali romani, fu elaborata nel convento di San Gregorio Armeno.

Anche i biscotti ricci, con la loro pasta a base di farina di mandorle, sono nati in un convento,  quello del SS. Rosario a Palma di Montechiaro in provincia di Agrigento e in un altro convento, ora demolito, il Real Convento della Maddalena a Napoli nacquero i roccocò (dal francese rocaille), i dolci speziati alle mandorle che, da morbidi che sono inizialmente, induriscono sino a diventare  come la roccia da cui prendono il nome.

Alle donne di scienza che si cimentarono nella preparazione di unguenti, tisane ed altri medicamenti e che furono vittime incolpevoli di una delle pagine più tristi della Storia, la «caccia alle streghe», che tante sofferenze e tanti lutti apportarono a queste pioniere, si deve invece la scoperta, la trasmissione e la diffusione della conoscenza delle erbe spontanee e di quelle officinali e delle loro proprietà sia medicinali, sia culinarie.

Eredi dei culti della Madre Terra, che affondavano le loro radici nelle culture pre-cristiane, ebbero la sola colpa di distaccarsi  da una cultura dominante che non ammetteva derive di differenziazione dall’unico culto della Madre Chiesa e che qualificava come diabolico tutto ciò che non voleva o non sapeva comprendere.

Nell’immaginario collettivo, soprattutto infantile, la strega è sempre cattiva, intenta a rimescolare nel suo calderone gl’ingredienti più abietti o a porgere ad innocenti fanciulle frutti avvelenati.

«Hänsel e Gretel», antica fiaba nordica riproposta dai fratelli Grimm, ha contribuito non poco a diffondere nell’infanzia l’idea che il bosco, nel quale si celebravano i riti pre-cristiani, fosse un luogo pericoloso in cui c’era sempre in agguato una strega pronta a rapirli con l’inganno ed a farli prigionieri per poi mangiarli.

Credenze e superstizioni che si sono tramandate nei secoli, ma che non hanno impedito alle donne, di volta in volta sante o streghe, di gettare le basi della moderna fitoterapia.

La cucina al maschile

Per millenni donne e uomini hanno collaborato, non senza contrasti come in tutte le collaborazioni, nelle cucine senza che l’appartenenza di genere risultasse granché rilevante.

Non abbiamo notizia di coloro che materialmente hanno preparato i sontuosi banchetti di cui riferiscono le cronache di ogni epoca potendo solo ipotizzare una sorta di specializzazione che lasciava agli uomini i lavori più pesanti ed alle donne, in possesso di un’istintiva manualità fine e di sensi maggiormente affinati, la scelta dei sapori, degli equilibri e la confezione finale delle pietanze e dei piatti di portata celebrati anche nell’arte.

Banchetti che le cronache spesso attribuiscono ad un uomo, il sovrintendente o uno stretto collaboratore del padrone di casa, come una forma di riconoscimento del suo prestigio e della sua autorità.

Non v’è dubbio, tuttavia,  che nei secoli la cucina abbia attratto anche personalità maschili: sappiamo ad esempio che Leonardo da Vinci si cimentò anche in cucina, visto che nel Codice Atlantico ci sono progetti di utensili da cucina, che s’improvvisò cuoco nella taverna detta delle  «Tre Lumache» e che, ma il fatto non è documentato, pare ne abbia fondata una propria, assieme al Botticelli, denominata «Taverna delle Tre Rane» che però ebbe vita breve.

Un fatto certo è che la letteratura gastronomica, almeno sino ai primi anni del ‘900, è tutta maschile: da Maestro Martino da Como al Plàtina, da Bartolomeo Scappi a Cristoforo Messisbugo sino a Francesco Leonardi ed a Marie-Antoine Carême, i testi di cucina tramandatici sono infatti stati tutti scritti da uomini o a uomini sono stati intestati.

Quanti di questi fossero in realtà intellettuali della loro epoca prestati alla cucina non è dato sapere perché le loro biografie sono incerte e il loro linguaggio colto lascia intendere che, oltre ad una formazione eminentemente pratica, come quella che si richiedeva, e che per molti versi si richiede tutt’ora, ad una cuoca o ad un cuoco professionisti, erano in possesso di una cultura quantomeno di tipo umanistico.

Personaggi che, a diverso titolo, hanno occupato i vertici di quelle organizzazioni complesse, come dovevano essere e sono ancora, le  cucine delle Corti, dell’alta nobiltà e del Papato, tradizionalmente   occupati da uomini. Uomini che avevano più facilmente accesso all’istruzione, che godevano del  favore dei loro simili, che avevano la possibilità di viaggiare e di formarsi una cultura internazionale.

Il punto di svolta, tuttavia, nella «mascolinizzazione» contemporanea della cucina si deve a due grandi protagonisti dell’800 culinario che hanno attraversato anche gl’inizi del XX secolo: Auguste Escoffier in Francia e Pellegrino Artusi in Italia.

Il primo aveva avuto una formazione militare: nel corso della guerra franco-prussiana fu infatti capocuoco presso il Quartier generale dell’Armata del Reno in cui conobbe anche il generale Mac Mahon imprigionato a Sedan.

Da quella esperienza è lecito pensare che abbia dedotto, e l’abbia messa a frutto nella sua brillante carriera che ne ha fatto uno dei cuochi più prestigiosi, la necessità di una gerarchia dei ruoli di cucina basata sostanzialmente su quella militare.

A lui si deve, infatti, la nascita della brigata di cucina con la rigida distinzione dei ruoli, tutti declinati al maschile, che la caratterizza e la sostituzione del cuoco (in francese cuisinier) con lo Chef declinato non solo come capo assoluto della brigata, ma anche, in una minuziosa scala gerarchica, come capo delle singole «partite» come sono definiti in quell’organizzazione i gruppi responsabili delle  diverse preparazioni.

La storiografia ha sempre giustificato questa invenzione, di taglio dichiaratamente maschilista, come risposta ad una necessità di tipo organizzativo legata alla gestione dell’Hotel Ritz di Parigi ed alle altre prestigiose attività condotte da Escoffier, ma è facile notare che i grandi banchetti rinascimentali, che impegnavano decine se non centinaia di persone, non dovevano creare problemi organizzativi inferiori pur ignorando il concetto di brigata almeno nella strutturazione introdotta dal grande cuoco transalpino.

Quanto a Pellegrino Artusi, i cui meriti nella divulgazione della nostra cucina sono indiscutibili,  gli va quantomeno riconosciuto il merito di essere  l’inventore della cucina italiana della borghesia post-unitaria: definirlo «padre della cucina italiana», come fanno i suoi più ferventi ammiratori ancora oggi, appare forse eccessivo.

Figlio della borghesia commerciale e terriera romagnola, Artusi era, per sua stessa ammissione, un dilettante che aveva anche un certo disprezzo (espresso nella celeberrima prefazione alla prima edizione del suo volume «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene») per i cuochi professionisti.

A differenza dei testi dei suoi predecessori, e di molti dei suoi contemporanei, i lettori del suo libro, che per il suo tempo fu un grande successo editoriale ed è apprezzato ancora oggi, non erano né i cuochi professionisti, che riteneva tutto sommato dei presuntuosi, né il personale di cucina che probabilmente non avrebbe avuto i mezzi per comprendere il suo aulico linguaggio, ma i padroni e le padrone delle case della borghesia dell’Italia unita che si riconobbero nel suo stile elegante e nel suo gusto ed intrattennero con lui una fitta corrispondenza.

Artusi pretese di riscrivere completamente, ed in parte vi riuscì, la cucina italiana tradizionale e d’influsso straniero azzerando non solo il lavoro dei suoi predecessori maschi, ma anche tutta la sapienza culinaria tramandata dalle donne alle quali si rivolse come una sorta di precettore che, grazie alla pratica e non all’apprendimento, aveva elaborato la propria «scienza».

La scelta di definire la cucina «scienza» (e quindi non mestiere né incombenza servile) si rivelò vincente non solo per distinguersi dagli altri testi di cucina, ma anche per attrarre quella parte maschile che considerava la cucina «roba da donne» o da personale di servizio.

Con Artusi nacque quella passione maschile tutta borghese per la sperimentazione culinaria liberata dall’impegno quotidiano del  mettere assieme il pranzo con la cena che ha poi attratto anche i personaggi dello spettacolo: da Aldo Fabrizi (che pure in famiglia, con sua sorella Elena detta «Sora Lella», aveva una cuoca professionista di alto livello) a Ugo Tognazzi e che contagia moltissimi ancora oggi.

Incoraggiata probabilmente dal grande successo editoriale dell’Artusi si affacciò, agli inizi del XX secolo, un’editoria culinaria tutta femminile, fatta di ricettari per massaie e giovani donne lavoratrici, ma scritta dalla buona borghesia che sul libro dell’Artusi, dono di nozze graditissimo, si era formata e che riprese uno dei motti artusiani: «il miglior maestro è la pratica».

Il primo libro di cucina italiana scritto da una donna di cui si abbia  contezza è infatti «Come posso mangiar bene?» della Contessa Giulia Ferraris Tamburini, edito da Hoepli (la casa editrice che aveva rifiutato il libro dell’Artusi) nel 1900 cui seguiranno altri testi di sue contemporanee aventi più o meno lo stesso oggetto e taglio editoriale.

Molti di essi erano destinati, come in parte lo fu anche quello dell’Artusi, alla formazione scolastica femminile, ancora appannaggio di educandati e convitti di matrice religiosa e che nel periodo post-unitario fu oggetto, come tutto il sistema d’istruzione, di un vivace dibattito politico in cui prevaleva la diffidenza, se non l’aperta ostilità, per  una piena e paritaria istruzione femminile nel timore che essa minasse la «naturale» subalternità della donna e la distogliesse dai suoi «compiti primari» di moglie e di madre.

Un’istruzione femminile, rivolta alla borghesia ed alla piccola nobiltà, che ancora prevedeva i cosiddetti «lavori donneschi» i quali comprendevano, accanto al ricamo ed alla cura della casa, la cucina.

L’istruzione professionale femminile in cucina, ammesso che d’istruzione si potesse parlare, era affidata, come del resto quella maschile, all’apprendistato che in qualche modo lo stesso Escoffier aveva organizzato introducendo, al gradino più basso della scala gerarchica della brigata, il ruolo del «Commis».

Neppure in quegli anni, peraltro, mancarono grandi cuoche, seppure spesso oscurate dai loro colleghi uomini.

Ne dà  testimonianza, per molti versi commovente, il film, premio Oscar nel 1988, «Il pranzo di Babette», tratto dall’omonimo racconto di Karen Blixen,  che narra la storia di una prestigiosa Chef parigina, Babette Hersant,  scampata allo sterminio della propria famiglia durante la Comune di Parigi, la quale, sotto mentite spoglie, trova rifugio presso una coppia di sorelle nubili luterane scandinave dove assume il ruolo di governante e si dedica, assieme alle due donne, ad opere di carità nel rigido rispetto della morale e della sobrietà luterane. Dopo anni di vita nella casa delle due sorelle Babette riceve inaspettatamente una cospicua vincita alla lotteria  di Parigi, ma invece di impiegarla per tornare in patria, dove non ha più nessuno, decide di regalare alle sue benefattrici e ad una parte  della comunità che l’ha accolta, completamente avulsa dai fasti culinari parigini, un pranzo memorabile nel quale investe tutta la vincita, appagata dal poter nuovamente esprimere la propria immensa arte culinaria. La piccola comunità, inizialmente diffidente, rimane estasiata dai piatti preparati da Babette, ma è del tutto inconsapevole del loro valore. L’unico a comprendere il gesto sarà il generale Lorens Löwenhielm che ha riconosciuto in Babette la Chef che aveva apprezzato a Parigi in gioventù, ma che manterrà il segreto. 

La donna e la cucina della necessità

Neppure il tempo per la borghesia europea di godere il suo trionfo con la «belle époque» che l’Europa precipitava  in un nuovo conflitto mondiale che ne avrebbe completamente cambiato il volto, la Grande Guerra, e che avrebbe segnato gli anni successivi sino al secondo dopoguerra.

Tornò, drammaticamente, il problema del cibo e la letteratura culinaria si rivolse alle donne, chiamate, ancora una volta, a prodigarsi nelle ristrettezze: nel 1916 uscì allora «Cucina di guerra», raccolta di ricette, in massima parte zuppe, del Comitato di Assistenza per i Mutilati che faceva appello  al «grande dovere di risparmio» della donna italiana. 

La cosa si ripeterà, alcuni anni dopo,  con «La cucina italiana della resistenza», di Emilia Zamara, che nel 1936 cercherà di conciliare economia domestica e autarchia.

Le donne furono ancor più drammaticamente coinvolte dalle restrizioni alimentari imposte dal secondo conflitto mondiale e dall’occupazione nazifascista, costrette a barcamenarsi tra esigenze di vita familiare e lavorativa e la borsa nera e molte di loro pagarono con la vita gli «assalti ai forni», quel fenomeno che soprattutto a Roma, la cui orgogliosa resistenza all’occupazione doveva essere piegata dalle gerarchie militari naziste riducendo alla fame la popolazione, le vide combattere e spesso soccombere per un fagotto di farina o un filone di pane.

Il fenomeno Ada Boni 

Nel panorama editoriale culinario, come detto a lungo dominato dalla figura maschile, emerse, a partire dal 1915, Ada Giaquinto che firmerà le sue opere col suo nome da coniugata di Ada Boni.

Ada proveniva da quella stessa borghesia agiata che si era nutrita degl’insegnamenti dell’Artusi e, giovanissima, aveva sposato Enrico Boni, scultore, critico musicale  e scrittore discendente di una ricca famiglia di orafi romani oltre che appassionato di cucina. A differenza dell’Artusi, che era un autodidatta, la formazione culinaria della Boni era stata anche di tipo professionale visto che era la nipote di Adolfo Giaquinto, rinomato cuoco della sua epoca, poeta ed autore di testi culinari oltre che curatore di una rivista di settore. La parentela con il suo illustre zio sarà peraltro a lungo utilizzata dai suoi detrattori per conferirle una sorta di patente di «raccomandata» dallo zio diminuendone i meriti.

Figlia della sua epoca e della sua classe sociale Ada Boni non si può certo definire una femminista, visto che propugnò un modello femminile ancora incentrato sui doveri familiari.  

Animatrice di una rivista femminile, «Preziosa», fu autrice di due volumi che segnarono comunque una svolta, forse addirittura maggiore rispetto all’Artusi, nell’editoria e nella cultura gastronomica italiane.

Il primo, che gli diede notorietà e prestigio, fu «Il Talismano della felicità» edito per la prima volta nel 1927 e tutt’ora nelle librerie; il secondo, purtroppo ora introvabile, fu «La cucina romana» del 1929 al quale hanno attinto praticamente tutti gli autori successivi.

Fu poi autrice di altri testi minori, compresa un’edizione ridotta del «Talismano», e nel secondo dopoguerra, complice la crescente alfabetizzazione del Paese, il suo «Talismano» ebbe una straordinaria diffusione mentre lei inaugurò, con una rubrica radiofonica della Rai, il ruolo della cuoca protagonista dei media che è all’origine di tante trasmissioni televisive culinarie di successo. 

La ristorazione al femminile contemporanea

I diversi movimenti femministi, soprattutto a partire dalla fine degli anni ’60, hanno finito col rifiutare radicalmente il ruolo della donna in cucina, visto comprensibilmente come riproduzione di un modello patriarcale e sinonimo di marginalizzazione, anche fisica, della donna.

Malgrado numericamente  minoritaria la ristorazione femminile è rimasta comunque una caratteristica della nostra cucina: dalle Osterie e Trattorie a conduzione familiare, in cui  una brigata tutta al femminile conduce la cucina mentre gli uomini sono addetti alla sala e alla cantina, ad alcuni locali che hanno fatto la storia della nostra ristorazione come il napoletano «Zì Teresa», oggi condotto dalla Chef Carmela Abbate, alla romana «Sora Lella», fondato e diretto da Elena Fabrizi con suo marito Renato Trabalza ed ancora gestito dai suoi discendenti.

Locali in cui, pur non mancando estro ed inventiva, ha sempre prevalso l’autenticità ed una capacità, tramandata nelle generazioni, di scelta degli ingredienti del territorio.

Più recentemente,  l’emersione, in numero e qualità, delle donne nella cucina professionale è stata costante consentendo ad un numero crescente di donne di affermarsi nei ruoli di vertice e di ottenere riconoscimenti, anche internazionali, anche in questo settore.

Nadia Santini,  Luisa Valazza Marelli, Cristina Bowerman,  Caterina Ceraudo, Bruna Cane, Valeria Piccini,  Katia Maccari, Viviana Varese, Marianna Vitale, Iside Maria De Cesare, Martina Caruso, Maria Rosaria Peluso,  sono solo alcune delle Chef più note e più premiate della nostra cucina, mentre altre lavorano duramente per affermarsi.

La «questione femminile» in cucina  oggi

La questione femminile è una delle più complesse della società contemporanea tanti sono gli aspetti, umani e sociali, coinvolti ed in ambito culinario assume, se possibile, peculiarità ancora maggiori.

Nella millenaria storia della cucina la prevalenza maschile si rivela, infatti, una sovrastruttura culturale, oltretutto relativamente recente, frutto di un modello sociale superato e che per prevalere ha avuto necessità d’importare un’impronta gerarchica e organizzativa di stampo militare e quindi tipicamente maschile.

V’è allora da chiedersi se nella cucina contemporanea, che ha visto ridursi considerevolmente i gruppi di lavoro in cucina, imporsi la duttilità e la multidisciplinarietà, in cui il dialogo, la responsabilizzazione  e la collaborazione si sono rivelati più efficienti della rigida organizzazione gerarchica, abbia ancora senso parlare di brigata di cucina e non di équipe, di Chef, che oltretutto non è un termine esclusivo del mondo culinario, e non di Cuoche e di Cuochi.

Se invece di costringere le donne a sfondare il soffitto di cristallo non si possa, tutti assieme ed indipendentemente dal proprio genere, eliminarlo del tutto e con esso gli aspetti competitivi della cucina alla quale restituire  quel ruolo di ricongiungimento con l’armonia dell’Universo che il genere umano gli ha riconosciuto sin dagli albori della civiltà.

Domande che al momento sono senza risposta, ma che prima o poi la troveranno, come «il cibo trova sempre coloro che amano cucinare».

Foto di Oberholster Venita da Pixabay

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