La poetica dell’imprevisto

Per i bambini delle elementari arriva sempre il momento in cui la maestra dice: «Bene, oggi vi insegnerò a scrivere una favola». Qualcuno si incuriosisce, qualcuno sbadiglia, qualcun altro pensa alle avventure che imbastisce con i giocattoli e si chiede se più o meno debba fare la stessa cosa. Ma tra dubbi e mancanza di ispirazione, arriva il famoso schema- guida che li prende tutti per mano e permette loro di srotolare in modo ordinato il gomitolo della fantasia.

Situazione iniziale, introduzione del personaggio, rottura dell’equilibrio, svolgimento, lieto fine.

C’era una volta un castello dove viveva… Chi ci viveva? Una principessa! E che faceva? Mangiava cioccolatini tutto il giorno… Oppure no! Magari ballava senza sosta con le scarpe di cristallo… E poi? E poi ecco che Un bel/brutto giorno succede qualcosa che travolge la vita della povera principessa e la ribalta: una specie di scherzo del destino che scombina le carte, le mischia e restituisce un mazzo che non avrà mai lo stesso ordine di quello iniziale.

Non esiste vita che non abbia subito un cambiamento di rotta, non esiste libro in cui non si assista alla rottura di un equilibrio. Lo straordinario si impone sull’ordinario all’improvviso (dal lat. improvisusin + part. pass. di prividere) dando luogo alle storie, e alla Storia.

Lazzaro che risorge dall’oltretomba, Dante che si ritrova nella selva oscura, i Giapponesi che sorprendono gli Americani a Pearl Harbor, un uomo qualunque che vince la lotteria, un ragazzo che esce di casa e non torna più… L’imprevisto (altra parola che deriva dal lat. previdere) è uno dei tanti fili rossi che legano la realtà al suo riflesso letterario, e dà un senso a entrambi. I libri sono storie di vite che cambiano, la razza umana è il prodotto di un’evoluzione senza la quale il mondo sarebbe ancora una grande piscina per esseri unicellulari. Eppure le rivoluzioni dell’imprevisto ci fanno paura perché sono scatole chiuse che non possiamo rifiutare, capricci di una forza superiore e lunatica che possiamo scegliere di chiamare caos o destino.

«Oh! Vergine Maria! Oh! Vergine Maria!» balbetta la Longa di I Malavoglia, quando inizia a rendersi conto che il mare non le restituirà il marito Bastianazzo; «Povero me! Che altro di peggio mi può succedere?» si domanda Ulisse quando sta per essere travolto dalla tempesta che il dio Poseidone gli ha scatenato contro.

La vicenda del valoroso re di Itaca — forse la figura letteraria più famosa e riproposta di tutti i tempi — è una delle più ricche di imprevisti della storia della letteratura.
Nel V Libro dell’Odissea, Ulisse salpa con una zattera dall’isola di Calipso e tiene la rotta seguendo le stelle: «guardava le Pleiadi, il Boote che tarda a tramontare e l’Orsa che chiamano anche con il nome di Carro: sempre lì compie il suo giro e fa la guardia a Orione, è l’unica a non bagnarsi mai nelle acque dell’Oceano. Infatti Calipso, divina tra le Dee, gli aveva ordinato di tenerla sempre alla sua sinistra durante la navigazione».

A un tratto vede giungere «Euro, Noto e Zefiro violento: e Borea, figlio dell’Etere, che gonfia le grandi onde». Sta arrivando la tempesta che ribalterà la zattera.
«Povero me! Zeus mi ha concesso di rivedere la terra quando non lo speravo più: ho potuto attraversare l’abisso del mare, ma ora non si vede l’uscita da questo mare bianco di spuma: ci sono dappertutto scogli appuntiti, le onde urlano e rimbombano, la roccia che si è innalzata è liscia e il mare è profondo, vicino alla costa: è impossibile stare in piedi per sfuggire alla morte!» esclama un Ulisse a cui la forza dell’imprevisto ha strappato anche l’ultima speranza.

Questa tempesta ha un’intensità straordinaria, come l’ira di Poseidone. È un vero e proprio fortunale. Come sostantivo il termine indica un insieme di venti fortissimi che causano gravi difficoltà alla navigazione, come aggettivo designa ciò che è dovuto alla fortuna. Il legame tra fortunale e fortuna, dunque, va ben oltre la radice comune della parola. Il fortunale è lo strumento che capovolge le sorti della navigazione e gli oggetti di fortuna sono quelli che vengono racimolati lì per lì per affrontare la tempesta. Spesso però non bastano a salvare il natante e i marinai diventano naufraghi.

La letteratura è piena di naufragi, ma non tutti hanno a che fare con vere e proprie storie di mare. Molti sono indici di condizioni esistenziali, basta pensare al «dolce naufragar» di Leopardi o all’ Allegria dei naufragi di Ungaretti.
Il naufragio che ci racconta Omero è fisico, ma anche metaforico. Rispecchia la condizione dell’uomo che perde l’obiettivo — la sua stella — perché un evento imprevisto gli rovescia zattera e lo lascia attaccato a un pezzo di legno, in balia delle onde del destino.

Grazie alla protezione della dea Atena Ulisse approda sull’isola di Scheria, una sorta di paradiso terrestre abitato dai Feaci. Ci arriva nudo, stremato e indifeso. Non c’è più taccia dell’eroe ingegnoso e arrogante che ha concepito il Cavallo di Troia. Come dice Massimo Recalcati in A libro aperto, lo ritroviamo «senza compagni, affamato, vinto dal mare, abbattuto, lontano da casa, perso, ricoperto di foglie secche per proteggersi dal freddo della notte».

Dopo essere sfuggito per l’ennesima volta alla morte, ha l’occasione di fare il bilancio della propria esistenza e scopre di non essere altro che un uomo solo, un vero Nessuno. L’emergere della sua vera identità lo ferisce così tanto che quando durante il banchetto nel palazzo di re Alcinoo l’aedo Demodoco racconta le gesta degli Achei a Troia, Ulisse nasconde il volto tra le mani e piange («con le forti mani e il manto purpureo trasse il capo e il nobile viso nascose: di piangere aveva vergogna davanti ai Feaci»).

Questo è uno dei momenti in cui l’intrepido marinaio si mostra più fragile, ma anche più se stesso. Le innumerevoli maschere che indossa durante la sua odissea sono cadute e non c’è più spazio per la finzione. Le lacrime sono vere, cadono contro la sua volontà e la sua anima si trova nuda, proprio come il suo corpo dopo il naufragio. Non è un segno di resa, ma una presa di coscienza che rende Ulisse più consapevole di quello che è stato il suo percorso, e quindi più maturo.

L’avventura che Omero ci racconta è la dimostrazione di come l’imprevisto sia sempre dietro l’angolo e si faccia continuamente coautore del nostro destino. Sbuca fuori

all’improvviso, ci fa lo sgambetto e ci strappa di mano la penna con cui stavamo tracciando le linee della nostra storia. Prende le sembianze di uno scrittore matto che ha una poetica tutta sua, forse illogica oppure così lungimirante da non poter essere immediatamente colta. Fa un frego su tutto quello che abbiamo scritto e ci rende la penna, costringendoci a riprendere una trama che non riconosciamo più.

Allora ci sentiamo disorientati, soli davanti alle nostre scelte e alle nostre responsabilità, e — come Ulisse dopo il fortunale — un po’ più consapevoli di quello che siamo diventati. È così che ci rendiamo conto che la rottura di un equilibrio non è che il primo passo verso la formazione di un equilibrio nuovo, diverso e destinato a essere a sua volta rovesciato. Non esistono lieti fine, e vissero felici e contenti è roba per bambini. La vita è come l’Odissea, segnata da contrattempi continui che aprono e chiudono una serie infinita di viaggi e fanno da controcanto alle scelte dettate dalla ragione.

La volontà di curare una rubrica fondata sul tema dell’imprevisto nasce proprio dall’esigenza personale di esplorare questi nodi dell’esistenza e di comprenderli a fondo attraverso la finzione letteraria che, come diceva Carlo Bo in Letteratura e vita, è «la strada più completa per la conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza».

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