“Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”; così Italo Calvino in Perché leggere i classici. Così capita ogni volta che ci si accosta ad un testo classico che non finisce mai di parlarci. Pensiamo ai poeti tragici greci, a Sofocle, all’Oἰδίπoυς ἐπὶ Κολωνῷ, Edipo a Colono, fa pronunciare questo discorso al coro:
Chi desidera una parte più lunga
Della vita e ignora ch’esistere
ha suoi equilibri, è chiaro modello
di mente contorta, eretta a tesoro.
Sì, catena di giorni che s’affolla
addensa l’esperienza
del soffrire. Serenità
ti sfuma: dove, ignori,
se sconfini in spazi
non dovuti. Ti salva la livellatrice
nell’ora che, dal Nulla, spettro della fine
mute note, ritmi fermi
appare:
morte! Ed è finita.
Si tratta del tema dell’inevitabilità del destino umano, quel corso segnato e determinato di eventi, quel fatale accadere preordinato e necessario.
Inutile, scrive Sofocle, superare la misura di ciò che è stabilito, “sconfinare in spazi non dovuti”. Aveva ragione Ovidio negli Amores, quando scrisse che il tempo non porterà alcun danno alla tragedia di Sofocle: Nulla Sophocleo veniet iactura cothurno. Sofocle, poeta tragico del V secolo a.C., ci parla da laggiù, additando la strada.
Le radici della nostra identità sono tutte in quei versi ed in tanti altri versi che, come questi, parlano il linguaggio perenne del per sempre. Non resta che attingere a quelle voci, a quelle verità di ieri che – seppur tanto distanti – ci guidano nella comprensione dell’oggi.
di Monica Cartia
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