La lezione di Kafka in “Un medico di campagna”: I cavalli, le occasioni, il tempo perduto

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«Ero atteso da un malato grave in un paese a dieci miglia da qui; profonde distese innevate colmavano il grande spazio che mi divideva da lui; (…) imbacuccato nella pelliccia, con in mano la borsa dei ferri chirurgici, ero già pronto a partire; il cavallo, però, il cavallo mancava». A parlare è il protagonista di Un medico di campagna — racconto di Franz Kafka scritto tra gennaio e febbraio del 1917 e pubblicato nel 1919 — che in una notte d’inverno viene chiamato a curare un malato grave in un paese che dista dieci miglia da casa sua. 

L’imprevisto e la soluzione

Ha la carrozza ma il suo cavallo è morto il giorno prima e la neve rende il paziente irraggiungibile. Il dottore, spinto più dal bisogno di mandare avanti la sua «fiorente attività» che da un’autentica passione per la professione, manda la domestica Rosa in paese a cercare un altro cavallo. Data la stagione impervia, nessuno ha intenzione di cedergli i proprio. Ma quando sembra che non ci sia via d’uscita, ecco che — ennesimo imprevisto — il dottore trova la soluzione nella sua stessa proprietà.  Vicino al cortile, in un porcile in disuso da anni trova un servo straniero che si presenta come stalliere e ha due cavalli. 

«Ehi fratellino, ehi sorellina! gridò lo stalliere; e due cavalli, due splendide bestie dai fianchi robusti, si spinsero avanti uno appresso all’altro, serrando le zampe accanto al corpo e abbassando le splendide teste alla maniera dei cammelli, con la semplice spinta della groppa, attraverso il vano della porta ch’essi riempivano interamente». L’entrata in scena dei cavalli è provvidenziale, talmente miracolosa da risultare surreale. Il medico si lascia subito affascinare da questa apparizione («Non ho mai viaggiato […] su una pariglia così bella, e salgo tutto contento»). Tuttavia il dono dello straniero non è un vero dono. Come ogni buon diavolo tentatore egli vuole qualcosa in cambio: insidiare la domestica Rosa. 

I cavalli e il naufragio

Il medico cerca sia di salvare la povera Rosa che di adempiere al suo dovere, ma questo non è possibile. Non reagendo davanti all’atteggiamento aggressivo che lo straniero ha verso la domestica perché accecato dallo splendore della pariglia, ha già compiuto la sua scelta. Ormai non c’è più tempo per i ripensamenti. «Tu vieni con me, dico al servo, se no rinuncio al viaggio per quanto urgente esso sia. […] Vispi! dice intanto lui battendo le mani; la vettura viene strappata via, come un legno nella corrente; sento ancora la porta di casa mia cedere e andare in pezzi sotto i colpi del servo; poi gli occhi e le orecchie mi si riempiono di un sibilo che mi penetra, indifferentemente, per tutti i sensi. Ma solo per un momento, poiché, come se la porta del malato si aprisse immediatamente dirimpetto al portone di casa mia, eccomi già a destinazione».

Da questo momento il medico si ritrova come un naufrago che non ha più il controllo del proprio destino. Come «un legno nella corrente», appunto. Sono i cavalli — indocili come un mare in tempesta — a guidarlo verso la meta. Nell’atmosfera onirica e allucinata che permea l’intero racconto, si pongono come creature ultraterrene inviate dall’alto. Simboleggiano il tempo, il valore delle scelte e l’importanza di cogliere l’occasione della salvezza, che altrimenti si tramuta in condanna. Riescono in azioni miracolose, come quella di allentare le briglie e aprire le finestre della casa del paziente con la testa. Il loro comportamento costituisce un segnale che il dottore decifra immediatamente: se vuole tornare a casa e salvare Rosa deve riprendere subito il viaggio. 

La beffa della vita

L’idea di tornare indietro lo alletta, ma i familiari del paziente lo trattengono e lui si lascia trattenere anche quando sospetta che il malato in realtà sia sano e tutta la situazione sia solo un raggiro. Prima la sorella gli toglie la pelliccia, dopo il padre gli offre un bicchiere di rum. Poi la madre lo invita al capezzale del finto malato e infine gli viene mostrato un asciugamano sporco di sangue che rivela che il malato è malato per davvero. La rivelazione ancora una volta è scandita dal nitrito dei cavalli: «adesso nitriscono tutti e due i cavalli; il rumore, preordinato certo dall’alto, dovrà senz’altro facilitare la visita, e infatti adesso ci vedo chiaro: sì, il giovane è malato».

In realtà probabilmente i cavalli stanno avvertendo il dottore che il tempo per salvarsi sta scadendo. Dopodiché si acquietano. Diventano ombre sempre più docili e quando finalmente il protagonista riesce a uscire dalla casa del paziente li ritrova diversi. Non più irrequieti e baldanzosi, ma lenti come vecchi e incapaci di affrontare il deserto di neve che li divide dal punto di partenza. Il tempo della salvezza è finito, per assolvere al suo dovere ha perso tutto. Un sacrificio che sarebbe stato nobile se non fosse stato mosso dalla prospettiva del tornaconto. E quello che resta alla fine è  solo una beffa amara: «In questo modo non arriverò mai a casa […]. Nudo, esposto al gelo di questa stagione sventuratissima, con una carrozza terrestre, ma con cavalli non terrestri, mi trascino di qua e di là come un vecchio. […] Sono stato gabbato!». 

Foto di Susann Mielke da Pixabay

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