Inni e antichi canti: Oriente e Occidente nel nuovo lavoro di Girolamo De Simone

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L’autorevole musicista vesuviano torna con il secondo cd della ‘trilogia bianca’. Un progetto di incontri e invenzioni, tra arcaismo e futuro, antichi frammenti vocali e itinerari spirituali.

“Rievocherò gli arcani dei tempi antichi”. È il Salmo 77, uno dei frammenti ai quali Girolamo De Simone si accosta per la sua nuova esperienza musicale Inni e antichi canti. Mai come questa volta la religiosità e la storia di antichi percorsi spirituali muovono il compositore vesuviano, sempre attento alle connessioni e agli scambi tra culture diverse: “La musica riesce come e più di altre discipline artistiche a trovare l’identico e il diverso tra culture – dichiara De Simone – determinando grazie alla sua naturale ‘astrattezza’ i territori condivisibili e quelli che ci mostrano l’altro nella sua differenza. Riconoscerla è parte del gioco: ne scaturisce meraviglia, sorpresa, ammirazione. Alla fine, tutte le cose sono in costante evoluzione, e chi si occupa di conoscenza lo sa benissimo”.

Nato a Napoli nel 1964, Girolamo De Simone vive e lavora alla periferia della metropoli partenopea, alle pendici del Monte Somma, a ridosso del Vesuvio. Musicista e agitatore culturale, è considerato tra i principali esponenti della musica di frontiera. Il nuovo lavoro Inni e antichi canti nasce da un itinerario di ricerca legato alla riscoperta del passato, alla “trasferenza” e alla rielaborazione personale filtrata attraverso illuminazioni e coincidenze. È il secondo tassello di una trilogia inaugurata due anni fa con Ai piedi del monte: “I tre cd della “trilogia bianca” insieme costituiscono un progetto per contenuti, metodo, struttura… Ma ogni singolo cd è anche da solo ‘progetto’, perché parto da un’idea (solitamente una ricerca) capace di trascinarmi e appassionarmi, e la perseguo anche per anni…”.

Girolamo rielabora al pianoforte e alla spinetta (con accordatura siriana) antichissimi frammenti vocali orientali e occidentali, dalle antifone del Gregoriano simplex ad antichi canti siriani di ispirazione gnostica, cogliendo consonanze, affinità e confluenze tra diverse aree geografiche, da Gerusalemme a Benevento passando per il suo Vesuvio. “Il filo conduttore è il viaggio. La musica gregoriana occidentale trova in quella orientale una delle sue matrici. Successivamente, essa si è radicata e innervata anche altrove, in cerimonie soprattutto popolari. Nella storia del Cristianesimo la parola ‘Siria’ è frequentissima, solo che noi abbiamo dimenticato questa e moltissime altre cose. Soprattutto, abbiamo smarrito quale sia il vero significato della parola ‘ricerca’. Credo invece che l’ultimo dei cenobiti o dei monaci avesse ben chiaro, davanti agli occhi e in ciò che realmente accadeva, cosa volesse dire viaggiare e trasformarsi“.

…’l’attualissima e arcaica nostalgia di Girolamo De Simone’…

Konsequenz/Hanagoori Music 2012 – 12 brani, 30 minuti

Info: Girolamo De Simone – Konsequenz – Ufficio Stampa Synpress44

 

L’avventura degli Inni

L’avventura degli “Inni e antichi canti” è cominciata un pomeriggio di due anni fa. Ero alla Ubik di Napoli a presentare “Ai piedi del monte”, il mio precedente cd (ma si trattava anche in quel caso di un progetto, più che di un semplice disco), e lo spazio  performativo era allocato al secondo piano della libreria, dove trovano ospitalità i volumi dedicati ai viaggi. La mia attenzione viene catturata da un titolo: “La montagna sacra”: mi pareva singolare che quel libro mi cadesse sotto gli occhi proprio mentre presentavo un disco dedicato al cammino, alla risalita, alla rinascita. “La montagna sacra”, in effetti, è il reportage di un viaggio di William Dalrymple, storico e scrittore di origine scozzese, studioso di Cambridge che si era avventurato attraverso la Siria, il Libano, Israele, partendo dal Monte Athos, ripercorrendo il cammino che nella primavera del 578 dopo Cristo era stato intrapreso da Giovanni Mosco e dal suo allievo (poi vescovo) Sofronio. Mosco era un monaco orientale, che tenne a sua volta un diario, scritto in greco, di quel viaggio alla scoperta della cristianità orientale in un’epoca in cui ancora dialogava e conviveva con la presenza islamica.

Come sempre mi accade quando mi imbatto in un libro che mi affascina, ho tracciato linee che mi conducessero ad altri luoghi. Cerco “Il prato” di Giovanni Mosco, ma è introvabile: torno alla Ubik ma mi dicono che il libro è esaurito; provo in altre dieci librerie, nulla. Allora vado alle Dehoniane, perché lì ho comprato anche altri testi dei padri orientali, quelli definiti “del deserto”; trovo e prendo la “Difesa delle immagini sacre” di Giovanni Damasceno, e la Filocalia (tesoro di grandi ricchezze). Lì mi dicono che il volume che cerco è in effetti edito da un editore-libraio che è a pochi passi da piazza San Domenico. Sono però le otto meno venti: corro come un pazzo dalle Dehoniane fino alla libreria D’Auria: salgo le scale e chiedo sfiduciato se per caso non gli è rimasta una copia del “Prato”. Mi rispondono “certo!”. Alle otto meno cinque ho tra le mani il diario di Mosco che descrive il mondo monastico dei primi secoli dopo Cristo.

Nel frattempo ho scoperto che Francesco Malacrida, un etnomusicologo italiano citato nel libro dello scozzese Dalrymple, in realtà si chiama Gianmaria Malacrida, e che ha pubblicato per la Lim un volumetto sulle musiche dell’antica Siria. Lo studioso dimostra che alcune forme di canto presenti in Siria sono molto probabilmente le più antiche testimonianze di canto sacro, e che furono trasmesse anche in Italia.  Ordino il libro e, sempre con una casualità sorprendente, il volume mi arriva tra le mani mentre sto inviando alla Siae un nuovo brano. Ora ho parecchi libri tra le mani, ma nel leggerli le diramazioni vanno in ogni direzione, e presto ottengo trascrizioni di temi dalle antiche tradizioni liturgiche beneventane (Ingressa, dalla liturgia del giovedì Santo), bizantine, siriane. Da un viaggio in terra Santa avevo riportato anni fa un graduale con i canti delle processioni francescane. Me ne ricordo ad Assisi, dove trovo un librone sul gregoriano simplex. Acquisisco anche l’Atlante musicale della musica del medioevo, e sfogliandolo mi ricordo di aver letto, in Pirenne (la sua celebre “Storia economica e sociale del Medioevo”) una descrizione dei rapporti commerciali tra Siria e paesi del Mediterraneo. Questi rapporti commerciali, in effetti, andarono a costituire l’origine delle città nuove, la nascita del diritto commerciale (jus mercatorum) e di quello amministrativo, l’origine di una giustizia cittadina (attraverso l’autonomia giudiziaria e amministrativa dei nuovi borghi) e, sostanzialmente, quella della nozione stessa di ‘cittadinanza’, come culla della libertà (“Die Stadtluft macht frei”, ovvero, “l’aria della città rende liberi”). Naturalmente, nulla è più lontano da me della tessitura di un elogio della borghesia, ma sta di fatto che alcune idee si siano formate proprio grazie ad una trasferenza di origine mercantile tra oriente ed occidente. Tutto ciò mi è parso una splendida occasione per individuare l’identico e il differente tra due mondi, al fine di determinare una quota di ‘appartenenza’ reciproca, un territorio in comune capace di ottenere, stavolta fuor di metafora, una trasferenza attualizzata, tra culture anche differenti.

La musica, in effetti, grazie alla sua astrattezza, alla mobilità delle sue forme, può agilmente realizzare questa uniformità, laddove abbia reperito un materiale di partenza comune. Io ho reperito questo materiale in temi e forme del canto antico di matrice spirituale. E scrivo apposta ‘spirituale’, dacché le fonti più antiche del canto siriano vengono riferite alle più antiche forme conosciute, e all’insegnamento di Giovanni l’apostolo. Una figura che mi è sempre stata familiare, come quella di San Giovanni Battista e, ora, con quella di Giovanni Damasceno.

Come avviene la fusione tra antico e moderno nella mia musica? Di fatto le modalità del canto antifonale fanno indissolubilmente parte di noi e della nostra terra, nel senso che esse sono state profondamente assimilate nelle stesse ‘inflessioni’ della lingua e del dialetto che parliamo ogni giorno. Per non parlare della loro trasfusione nelle cerimonie che qui, nel vesuviano e nel meridione, sono ancora vive e replicate in precise ricorrenze (si pensi anche solo ai canti degli Incappucciati di Somma Vesuviana). Io vivo qui e a questa terra sono legato, vengo dalla musica classica e dalle avanguardie degli anni Settanta e Ottanta. Ho dai primi vagiti pronunciato la parola “frontiera”, per suggerire la necessità di una musica che si riappropriasse della possibilità di ‘dire’, ‘dialogare’, ‘comunicare’ (e devo dire che trovavo nel pianismo di Cornelius Cardew un grande esempio). Infine ho mescolato le mie sonorità e la propensione ad un modalismo personalizzato con queste antichissime fonti, in alcuni casi attraverso l’arte della variazione, in altri attraverso quella del ‘tradimento’ programmatico, e spesso nella pura e semplice invenzione per assonanza. Non mi interessava proporre una ‘trascrizione’, ma una attualizzazione di qualcosa che, in tutta evidenza, appariva dimenticato e disperso.

 

Girolamo De Simone

 

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