Il riso, il cereale bianco simbolo di leggerezza 

riso

Nelle tavole estive si è preso la sua parte nella celeberrima insalata, piatto probabilmente originario della cucina della diaspora ebraica e divenuto popolare grazie alla sua semplicità ed agl’infiniti  abbinamenti.

Il riso sta bene con tutto ed è in grado di coprire l’intero pasto, dagli sfiziosi antipasti fritti sino al dolce o di presentarsi, bollito, come contorno ottimo per compensare la piccantezza di taluni piatti orientali e  della nostra cucina meridionale.

Benché l’Italia ne sia il secondo produttore mondiale dopo la Cina, che è la patria del riso che consumiamo prevalentemente oggi (Oryza sativa sottospecie japonica) e nella quale è coltivato sin dall’epoca preistorica, la diffusione della sua coltivazione è avvenuta da noi solo dalla metà del 1500, mentre il suo stabile ingresso nella nostra gastronomia data la metà del 1800 e le motivazioni, come vedremo, sono molto complesse.

Ancora più recenti sono la diffusione della sottospecie indica (che in Italia spesso prende il nome della sua varietà più nota, il Basmati, trascinata dalla cucina etnica indonesiana) e le varietà di riso nero (come il riso Venere) e rosso frutto d’incroci realizzati dalla metà alla fine del XX secolo.

Le due sottospecie principali, japonica ed indica, sono facilmente riconoscibili dalla forma e dalle caratteristiche del chicco: corto, arrotondato, dal colore perlaceo e con il classico «dente» il primo, lungo e sottile il secondo.

Recentemente, inoltre, si sono diffuse molte varietà di riso integrale, detto risone, mentre il riso «che non scuoce» detto parboiled per il trattamento che subisce, e che ha avuto un certo successo negli anni ’70, sconta il suo essere un prodotto manipolato e sta cadendo progressivamente in disuso.

Dal riso, infine, si traggono due sottoprodotti che hanno una loro qualche utilità specie nelle diete povere di glutine: la farina,  utilizzata come addensante in pasticceria per il suo ricco contenuto di amido e dalla quale si possono  ricavare frollini ed una sottospecie di pasta priva di glutine ed il riso soffiato, una lavorazione che prevede una doppia cottura del riso (bollitura e tostatura) dalla quale il riso emerge completamente trasformato acquisendo una discreta croccantezza che lo rende utile per le gallette o i dolci a base di cioccolato.

Il lungo viaggio del riso

Dal punto di vista gastronomico esistono un’Italia della pasta, che si colloca dal Centro sino al Sud, ed un’Italia del riso che coincide con il Piemonte (ed in particolare con il vercellese), la Lombardia,  il Veneto ed il ferrarese.

Questa suddivisione gastronomica corrisponde alla diffusione delle coltivazioni e soprattutto alla disponibilità del riso anche da parte delle classi meno abbienti: la sua origine è databile tra la fine del 1400 e la metà del 1500 perché anche nel Sud nel corso dei secoli i tentativi di introdurre il riso come cereale alternativo al grano non erano mancati anche se non avevano avuto successo o erano stati di breve durata.

Il riso, nella varietà japonica, giunse presumibilmente in Europa con Alessandro Magno che lo aveva conosciuto in Mesopotamia, ma né la cucina greca della sua epoca, né quella romana, che continuava a privilegiare farro e grano, lo presero in grande considerazione.

Inizialmente, infatti, fu assimilato ad una spezia o, al più, ad un medicamento: Quinto Orazio Flacco lo cita in una delle sue satire come ingrediente per una tisana medicamentosa (più probabilmente una crema), utilizzo che, a ben vedere, si fa ancora oggi del riso come alimento dello svezzamento o, semplicemente bollito, come coadiuvante della dieta dei convalescenti.

Furono gli Arabi  i primi che, dopo averlo commercializzato come prodotto, ne tentarono la coltivazione in Italia: in Sicilia, a Siracusa e nella piana di Lentini, in Calabria a Sibari: località dove la coltivazione del riso è ripresa in tempi recenti e di cui è rimasta traccia nella cucina. Impossibile pensare alla cucina siciliana, ad esempio, senza le arancine (o arancini) di riso.

Più fortunata la coltivazione in Spagna da cui tornerà in Lombardia sotto gli Sforza diffondendosi ad Ovest in Piemonte e ad Est nel Veneto che ancora oggi, salve alcune coltivazioni di nicchia, rappresentano il centro della produzione nazionale.

Ad ostacolare la diffusione del riso due principali controindicazioni: il suo scarso apporto proteico, visto che è privo di glutine e per questo particolarmente apprezzato da coloro che al glutine sono intolleranti, ma è insufficiente a soddisfare il fabbisogno alimentare delle persone comuni, e le modalità di coltivazione che prevedono l’allagamento dei campi con la creazione delle risaie.

Sono state proprio queste ultime, che negli editti più risalenti si ordina tenere ad una distanza di sicurezza dai centri abitati, a fare da freno alla coltivazione perché da una parte sottraggono acqua alle altre coltivazioni in regioni che non ne hanno in sovrabbondanza, dall’altro attirano parassiti portatori di malattie.

In tempi più recenti è stata la laboriosità della coltivazione a rendere inviso il riso alla maggioranza della popolazione più povera.

Nella stagione della mondatura, cioè della pulizia dalle erbe infestanti, le risaie sono state oggetto di un consistente flusso migratorio  stagionale femminile e di un marcato sfruttamento di una figura ormai scomparsa con l’introduzione dei disinfestanti: le mondariso o mondine.

Ad esse s’ispirerà il film del 1949  diretto da Giuseppe De Santis  «Riso amaro», considerato uno degli esempi più notevoli del Neorealismo italiano ed avente quale protagonista femminile principale una giovanissima Silvana Mangano.

Nello stesso 1949 la protesta delle mondine per migliori condizioni di lavoro si tramutò in tragedia.

A Molinella, in Emilia-Romagna, luogo storico della protesta delle mondine sin dalla fine del 1800, lo sciopero delle mondine fu duramente represso dalla polizia con l’uso delle armi e la trentaquattrenne Maria Margotti, ex partigiana, fu colpita a morte.

Le condizioni di vita e di lavoro delle mondine erano realmente massacranti. 

Scarsamente remunerate, ed in parte con il riso, erano costrette a stare perennemente curve sotto al sole, con l’acqua sino alle ginocchia, senza possibilità di lasciare il lavoro neppure per mangiare o per andare in bagno e senza alcuna protezione contro gli insetti e gli altri parassiti.

Un universo di sfruttamento femminile, che il film di De Santis, che fu anche candidato all’Oscar,  rese noto al grande pubblico e che rappresentò una delle prime prese di coscienza dei diritti delle donne grazie anche ai canti popolari «Se otto ore vi sembran poche» e all’ancor più famoso «Sciur padrun da li beli braghi bianchi», che il grande pubblico conoscerà nel 1971 con l’incisione di Gigliola Cinquetti.

Il riso tra coltivazione intensiva e  gastronomia borghese

Osteggiato dalla medicina medievale  per le sue caratteristiche astringenti, che ne consigliavano un uso moderato e zuccherato, il riso iniziò a fare la sua comparsa nella cucina italiana con la pasticceria, unito al latte vaccino o al latte di mandorla.

In alcune ricette è ad esempio uno degli ingredienti del Biancomangiare, una delle pietanze più diffuse nei banchetti medievali nelle quali, come allora accadeva, le distinzioni tra dolce e salato non erano così nette come ora.

A lungo il riso fu appannaggio delle classi più abbienti e questo dato, che parrebbe in contrasto con la notevole produzione nazionale, si giustifica con il fatto che inizialmente fu un prodotto d’importazione, soprattutto da parte della Serenissima che ne osteggiò le produzioni locali, mentre  la sua coltivazione nazionale, che prese piede solo nel Rinascimento,  fu, per un lungo periodo storico,  un’operazione speculativa che, fondandosi sulle alte rese e sullo sfruttamento della manodopera, per lo più femminile, consentiva ampi profitti con l’esportazione di circa il 50% della produzione nei Paesi europei a più alto consumo (Austria, Francia, Germania e Svizzera), mentre il resto della produzione veniva assorbito dalla manodopera, alla quale era dato come integrazione o addirittura sostituzione della retribuzione, e dalle popolazioni più vicine alle risaie mantenendo alto il prezzo nel restante mercato interno per il quale, sino al secondo dopoguerra, il riso restò un lusso.

Nella zona di Salerno, ad esempio, in cui si produceva ottimo riso al punto da essere citato in uno dei trattati gastronomici più importanti della sua epoca, «Lo scalco alla moderna» di Antonio Latini edito per la prima volta a Napoli nel 1694, fu Gioacchino Murat, imposto come Re ai napoletani da Napoleone, a vietarne la coltivazione, ufficialmente per ragioni sanitarie, ma in realtà per favorire altre produzioni risicole ed in particolare quelle francesi.

Proprio queste caratteristiche speculative  determinarono la creazione nel 1931 dell’Ente Nazionale Risi chiamato a sostenere un mercato che, dopo i profitti speculativi, presentava, all’inizio degli anni ’30, una profonda crisi.

Per fronteggiare tale crisi, oltre a politiche di sostegno dei prezzi da parte dello Stato, si tentò in ogni modo, nell’ambito del progetto di autosufficienza alimentare del regime fascista, di favorirne il consumo interno a discapito di quello della pasta, pur senza però intaccare i profitti dei grandi latifondisti e quindi far crollare i prezzi.

Nacque allora una vera e propria campagna pubblicitaria, sostenuta dall’Ente Nazionale Risi,  a favore del riso e contro il consumo della pastasciutta e che vide protagonista anche Filippo Tommaso Marinetti con il suo «La cucina futurista» che contrapponeva la leggerezza e la dinamicità del riso alla lassezza della pastasciutta.

Se nella gastronomia popolare il riso fece saltuarie incursioni soprattutto come cibo per convalescenti oppure nei timballi (il famoso sartù di riso) e nei pasticci, nelle diverse forme tondeggianti ripiene, è in quella borghese che il riso riscosse il maggior successo grazie alla sua delicatezza, che lo distaccavano dalla pasta ritenuta alimento sin troppo popolare, ed al suo aspetto che richiama una qualche forma di purezza e di raffinatezza.

A sospingere il consumo del riso nelle classi più abbienti furono anche anche i testi di cucina destinati alla nascente borghesia della fine del 1700 e dell’800: Vincenzo Corrado, con «Il cuoco galante», (Napoli, 1773); Francesco Leonardi, con l’ «Apicio moderno», (Roma, 1807),  Giovanni Felice Luraschi con il «Nuovo cuoco milanese economico», (Milano, 1853),  Ippolito Cavalcanti con la sua «Cucina teorico-pratica», (Napoli, 1839) e lo scritto a più mani denominato  «Il Cuoco milanese e la cuciniera piemontese», (Milano, 1859) sino ad arrivare all’Artusi proposero il riso in varie combinazioni a beneficio di una classe borghese in cerca di una nuova identità culinaria ed è grazie a questi testi che si diffusero la maggior parte delle preparazioni a base di riso che apprezziamo ancora oggi, a partire dal risotto alla milanese, impreziosito dallo zafferano, la spezia sinonimo di lusso.

Il carattere di bene di lusso del riso è peraltro attestato anche da un rito che si ripete ancora oggi: quello del lancio dei chicchi sui novelli sposi alla loro uscita sul sagrato della chiesa. 

Un rito benaugurante in cui il riso ha preso il posto del grano e che si esprime in un momento di festa in cui tradizionalmente non si bada a spese.

Il riso dalla metà degli anni ’50 ad oggi 

La metà degli anni ’50 ha segnato un passaggio epocale per il riso italiano: la neonata industria chimica italiana ha messo  a disposizione dei risicoltori i fertilizzanti e soprattutto i diserbanti  e gli anticrittogamici che, forniti a bassissimo prezzo, hanno eliminato il ricorso alle mondine superando quindi un possibile motivo di conflitto sociale e consentendo un ulteriore abbattimento dei costi.

L’ecosistema delle risaie è cambiato profondamente e le stesse non sono più viste come fonte di sfruttamento e di malattie.

Le successive normative restrittive  europee interverranno quando ormai la meccanizzazione agricola avrà fatto passi da gigante compensando progressivamente la riduzione degli apporti chimici e consentendo la diffusione della coltivazione del riso anche con modalità biologiche.

Contemporaneamente sono state messe a punto nuove varietà di riso che ampliano l’offerta:  il Carnaroli, uno dei risi superfini più apprezzati, ma anche il riso Venere sono di recentissima introduzione anche se sono entrati rapidamente nella gastronomia quotidiana.

La cucina televisiva odierna, in cerca di preparazioni sempre più accattivanti, esalta, specie attraverso i testimonial, il risotto divenuto ormai la principale modalità di preparazione del riso ed accentua  la trasmigrazione di una tecnica del riso, la risottatura, alla pasta e persino ai legumi.

Nelle invenzioni  più recenti, infatti, la pasta non viene più cotta in acqua e poi saltata per brevi periodi in padella per assorbire meglio il condimento, ma, al pari del risotto, cotta direttamente nel condimento con la progressiva aggiunta di acqua o brodo.

La nuova moda culinaria ha reso popolare un accessorio un tempo meno consueto: il mestolo forato da riso di cui, tuttavia, molti ancora ignorano la funzione che si lega ad una delle caratteristiche del riso della sottospecie japonica: l’elevata quantità di amido.

La fuoriuscita dell’amido durante la mantecatura determina la cremosità del piatto, accentuata normalmente dall’aggiunta di grassi, ma non deve essere anticipata  per evitare che il chicco si svuoti prima di aver completato la sua cottura.

Ecco allora che la mescolatura, attività importantissima durante la risottatura perché i liquidi vengono aggiunti progressivamente ed il riso deve cuocere in modo omogeneo, deve avvenire nel modo più delicato possibile evitando rotture accidentali dei chicchi e questa è la funzione del foro che riduce la superficie del mestolo che entra a contatto con il riso.

Nella gastronomia italiana contemporanea il riso è ormai assimilabile, quanto a diffusione e poliedricità, alla pasta e le nostre varietà nazionali sono apprezzate in tutto il Mondo.

Il lungo viaggio del riso dalla Cina alla tavola italiana quotidiana si è concluso nel migliore dei modi.

Foto di ImageParty da Pixabay

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