Il pomodoro nella cucina italiana

pomodoro

Originario del Sud America e diffuso prima dai Maya e poi dagli Aztechi in Centro America, dove lo trovarono i colonizzatori spagnoli di Hernán Cortés che lo importarono in Europa, il pomodoro (Solanum lycopersicum) ha faticato non poco ad imporsi nella nostra cucina. Eppure oggi non v’è preparazione della cucina italiana, dalla pasta alla pizza, dalla carne al pesce e alle verdure, che non preveda una o più varianti con la salsa di pomodoro che, grazie alle conserve (artigianali o industriali) ed alla coltivazione in serra dei pomodori è disponibile tutto l’anno, mentre «mangiare in bianco» è sinonimo di dieta stretta o da convalescenti.

Coltivato inizialmente come pianta ornamentale (come attesta il primo riscontro documentale toscano del 1548) il pomodoro è divenuto parte integrante della cucina della penisola soprattutto grazie alla facilità della sua coltivazione ed alla progressiva perdita, per selezione naturale, della sua forte acidità e della solanina (α-tomatina e deidrotomatina) che rimane in quantità tollerabili nella buccia, ma ne rende tossici il fusto e le foglie che sono irritanti anche solo per contatto.

L’evoluzione del nome

Nella penisola italiana, ben prima dell’Unità, il frutto del Solanum lycopersicum si è diffuso con il nome di «pomo d’oro» poi fusosi in «pomodoro». L’origine composta giustifica la correttezza di entrambe le forme plurali: pomidoro o pomodori, mentre «pummarola» (utilizzato in una simpatica canzone del Quartetto Cetra) o «pommarola» sono forme dialettali.

Il termine italiano, utilizzato in botanica già nel 1500 in sostituzione del nome azteco di tomatl diventato l’anglosassone tomato, attesta che le primissive varietà di questa pianta dovevano essere di un bel colore giallo oro, poi diventato recessivo a favore del rosso vermiglio che identifica le varietà più diffuse dei pomodori da mensa italiani.

Dal Sud al Nord d’Italia

Se per condizioni climatiche e cultura culinaria la patria del pomodoro italiano è sicuramente il nostro Sud, ed in particolare la Sicilia e la Campania, va detto che ormai il pomodoro trova coltivazione e impiego anche nel Centro e nel Nord.

Per una volta a favorire la diffusione di un ingrediente tipicamente meridionale non è stata la nostra migrazione interna, ma la cucina borghese di Pellegrino Artusi prima e di Petronilla poi, pseudonimo della mantovana Amalia Moretti Foggia, prima pediatra italiana, che dalle colonne della Domenica del Corriere si dilettava a fornire ricette e consigli di gastronomia alle famiglie italiane del primo dopoguerra.

Una vera passione, quella dell’Artusi, per la salsa di pomodoro che nella ricetta n. 80 vi ha dedicato uno di quegli aneddoti che hanno decretato il successo del suo trattato.

«C’era un prete in una città di Romagna che cacciava il naso per tutto e, introducendosi nelle famiglie, in ogni affare domestico voleva mettere lo zampino. Era, d’altra parte, un onest’uomo e poiché dal suo zelo scaturiva del bene più che del male lo lasciavano fare; ma il popolo arguto lo aveva battezzato Don Pomodoro per indicare che i pomodori entrano per tutto; quindi una buona salsa di questo frutto sarà nella cucina un aiuto pregevole».

L’incontro con la pasta

Se consideriamo che l’industria pastaia campana inizia (come documentato dal CISPAI) nel 1630 e che la prima ricetta scritta della salsa di pomodoro (alla spagnola) si rinviene nel 1694 ne «Lo scalco alla moderna» di Antonio Latini, sorprende che il primo impiego documentato del pomodoro come condimento della pasta sia del 1781 nel «Del cibo pitagorico» di Vincenzo Corrado: per avere il connubio tra pasta e salsa di pomodoro c’è voluto quindi quasi un secolo.

Le ragioni di questo ritardo risiedono assai probabilmente (come adombrato da Massimo Montanari ne «Il mito delle origini») nella fruibilità del pomodoro, anche per eliminare i residui alcaloidi, quasi solo in forma di «salsa» e quindi di una preparazione dell’alta cucina, dispendiosa sia in termini di tempo che di combustibile: la maggior parte della popolazione, quando la pasta, industrializzata, divenne più a buon mercato, preferì allora condirla con il più pratico e disponibile formaggio.

A sancire il matrimonio della cucina popolare con la salsa di pomodoro saranno i venditori di strada che già alla metà dell’800 offrivano a pochi soldi nei vicoli napoletani i piatti di maccheroni conditi con la salsa di pomodoro perennemente sobbollente e l’immancabile formaggio grattugiato.

Più ancora risulteranno decisive le conserve domestiche di pomodori, praticate sino alla metà degli anni ’70.

Un vero e proprio rito che, approfittando del crollo del prezzo dei pomodori a metà estate dovuto al picco della loro maturazione, riuniva per giorni interi schiere di volenterosi di ogni età rigidamente organizzati in catene di montaggio e permetteva di avere per tutto l’anno salse precotte, e quindi pronte all’uso, che profumavano d’estate.

Dalla fine degli anni ’70, quando furono introdotte nuove varietà di pomodoro a maturazione progressiva che consentivano di sostenere il prezzo dei pomodori, questa pratica è di fatto scomparsa a beneficio delle conserve industriali che spesso beneficiano di pomodori d’importazione, soprattutto cinese.

Un incontro tardivo, quello della pasta col pomodoro, ma felice e duraturo

Felice perché la salsa di pomodoro è un concentrato di vitamine (C ed A) e di antiossidanti; duraturo perché ancora oggi un fumante piatto di spaghetti al pomodoro ci fa sentire a casa.

Foto di Ralph da Pixabay

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