I mostri del progresso

Quante volte abbiamo sentito frasi come si stava meglio quando si stava peggio di questo passo dove si andrà a finire? Sono pochi quelli che pensano che il presente possa essere migliore del passato, le mille difficoltà che dobbiamo affrontare ogni giorno portano i meno ottimisti a credere che la vita sia una corsa verso un vicolo cieco, priva di prospettiva.

È per questo che sia vecchi che giovani si sentono come foglie cadute troppo presto dal ramo, tagliati fuori da un mondo in cui teoricamente ognuno di diritto dovrebbe godere di un posto.

Dobbiamo essere bravi a stare al passo con la realtà, pronti a affrontare gli imprevisti che di continuo bussano alla nostra porta. E se non lo siamo cosa ne sarà di noi?

La domanda sorge spontanea, ma la risposta è che tutti possiamo parificarci con il mondo. L’uomo è essere in perenne trasformazione e adattarsi è nella sua natura, solo che a volte lo scombussolamento portato dal cambiamento è talmente forte che i più sensibili scelgono di rimanere ai margini.

Non è un caso che in letteratura la condizione dell’uomo moderno venga posta nel solco dell’inquietudine e dello smarrimento. Quello che non viene ribadito abbastanza spesso è che ognuno al suo tempo è stato un uomo moderno e ha vissuto con sgomento le novità della sua epoca.

Nella Roma repubblicana Sallustio rimpiange la dedizione con cui i suoi avi osservavano il mos majorum. Nella seconda metà dell’Ottocento Baudelaire parla di un poeta che nella frenesia della vita cittadina perde l’aureola e la vede finire nel fango.

La perdita dell’aureola è un vero e proprio trauma per il letterato ottocentesco. Con l’ascesa della borghesia l’intellettuale perde il suo ruolo di guida morale della società e questo lo fa sentire defraudato, condannato a «compiere azioni più vili […] come i comuni mortali».

In Italia questo momento arriva con la tanto sospirata Unità. Raggiunto il massimo obiettivo del Risorgimento, il ruolo degli scrittori diffusori del sentimento di identità nazionale si esaurisce.

La nuova corrente tira verso terre in cui c’è tanto posto per i solidi capitali accumulati dall’uomo pratico e poco per i pensieri profondi ma non quantificabili dell’artista. Agli intellettuali che non vogliono farsi trascinare non resta che nuotare controcorrente, o addirittura auto-esiliarsi in una vita da bohémien come hanno fatto gli Scapigliati su esempio dei Poètes Maudits.

Il giorno della morte di Igino Ugo Tarchetti — forse il nome più rappresentativo della Scapigliatura lombarda — sul Gazzettino rosa compare un articolo che lo descrive come «eroe martire bohémien su cui si getta l’angoscia della malattia».

La vita irregolare, il gusto per le storie tetre e la morte per tubercolosi (malattia tipica dell’artista bohémien) alimentano intorno all’autore il mito del poeta maledetto e finiscono per mettere in ombra la sua opera, considerata soltanto come un insieme di luoghi e personaggi macabri.
In realtà è proprio nel segno del macabro che la scrittura tarchettiana acquista il suo senso più profondo.

La sfiducia nei confronti della realtà post-unitaria porta l’autore a concepire il futuro come un avvenire oscuro. La luce dei valori-faro risorgimentali si è spenta e ha lasciato il mondo in una penombra che oltre alla vista offusca le menti, e le fa deviare.
Il verbo offuscare deriva da fosco (dal latino fuscus: tendente allo scuro), che al femminile diventa fosca.

Quello dell’ultimo romanzo di Tarchetti, dunque, non è solo un titolo: è la chiave d’accesso a un intero campo semantico. Buiocupoinquietantesinistrocattivoincertominaccioso torbido sono solo alcune delle parole che sfogliando il dizionario troviamo sotto l’aggettivo fosco. Un’altra è foschia, diminuzione di trasparenza dell’aria che ci impedisce di sospingere lo sguardo oltre un certo limite. Il suono di foschia richiama quello di follia. E cos’è la follia se non un altro tipo di impedimento alla visione chiara delle cose?

Non sorprende quindi che la protagonista del libro — Fosca, appunto — sia una donna estremamente instabile. La sua deviazione mentale non è una stortura innata, ma la conseguenza estrema di una relazione conflittuale tra l’io e il mondo.

I suoi disagi nascono da un aspetto fisico disarmonico, una bruttezza naturale che le impedisce di soddisfare il suo desiderio d’amore. La delusione per un matrimonio illusorio vissuto come ultima occasione di felicità fa nascere in lei una malattia tremenda e indecifrabile che la rende «collezione di tutti i mali possibili».

È a causa della malattia che da brutta diventa il ritratto della morte. Tarchetti la descrive come uno scheletro rivestito da un sottilissimo strato di pelle, con la testa grossa, i capelli neri e gli occhi velati.

Quando l’ufficiale Giorgio la incontra per la prima volta sente una profonda repulsione nei suoi confronti. In Fosca vede l’esatto opposto di Clara, la donna che ama e che appare come l’incarnazione degli ideali risorgimentali perduti. Bella, bionda, buona. Clara si presenta sempre in absentia, come il ricordo consolatorio di un passato luminoso ma irrecuperabile. Personaggio che compare sempre in presentia invece è la folle protagonista, la donna imprevedibile che rappresenta il presente oscuro.

Oltre che imprevedibile, Fosca è anche l’ imprevisto della vita di Giorgio. L’ufficiale viene letteralmente travolto dalla sua passione violenta e ossessiva. All’inizio la percepisce come un uragano, poi inizia a ricambiare il sentimento della malata e l’uragano diventa una catena.

Quella che Giorgio nutre per Fosca è un’attrazione perversa che non sostituisce la repulsione, ma vi si sovrappone, dando vita a un amore subìto e distruttivo che finisce per nuocere a entrambi gli amanti.
Fosca diventa sin da subito dipendente da Giorgio, sente che la sua vita potrebbe spegnersi se l’uomo la lasciasse e — portata all’auto-conservazione come ogni altro essere vivente — è pronta a diventare l’ombra dell’amato, a umiliarsi completamente pur di assicurarsi la sopravvivenza.

Anche Giorgio però è succube di Fosca, che fa costantemente leva sulla sua indole altruista e lo trasforma nella sua personale marionetta. Finisce perfino per trasmettergli la sua malattia:«Quella infermità terribile per cui aveva provato tanto orrore, mi aveva colto in quell’istante; la malattia di Fosca si era trasfusa in me, io aveva conseguito in quel momento la triste eredità del mio fallo e del mio amore».

Giorgio si scopre malato solo dopo aver consumato un rapporto carnale con Fosca, ma in realtà il germe della follia è il lui fin dall’inizio. L’attrazione per una donna che sembra l’incarnazione della morte è talmente contro natura che può definirsi necrofila. La necrofilia dell’ufficiale non fa che portare a galla una parte ignota della sua psiche, la più buia, quella in cui dimora il disagio nato dal confronto con la realtà in trasformazione. Quante volte la vita ci sembra talmente insostenibile che vorremmo solo chiudere il mondo fuori dalla porta e barricarci nella solitudine? Eppure nella maggior parte dei casi rinunciamo all’idea perché sappiamo che la solitudine senza la beatitudine della contemplazione è un’alternativa sterile e impraticabile alla vita.

Giorgio però è un individuo eccezionale (nel senso che rappresenta un’eccezione alla regola) e non riesce a resistere alla tentazione. Dopo aver opposto resistenza si lascia andare all’attrazione torbida che prova per Fosca e ne diventa dipendente. Sa che il rapporto con lei sarà privo di frutti e lo porterà all’autodistruzione, ma in fondo lo ritiene sempre più accettabile di un mondo che lo costringe a misurarsi con la sua inettitudine. Tarchetti mette molto di sé in Giorgio, ma questa scelta non gli appartiene. L’autore in realtà non ha mai smesso di parlare della società da cui prende le distanze e il suo atteggiamento contraddittorio nei confronti del presente non è un tentativo di fuga dalla realtà, ma l’unico modo che ha trovato per continuare a starci dentro.

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