Galileo Galilei e l’importanza di sapere di non sapere

galileo galilei

In Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (massima opera galileiana pubblicata nel 1632), Sagredo dice che la «vana prosunzione d’intendere il tutto non può aver principio da altro che dal non aver inteso mai nulla». Ragionamento che Salviati — nell’opera portavoce delle teorie di Galileo — ritiene «concludentissimo» poiché gli individui «quanto più sono sapienti, tanto più conoscono e liberamente confessano di saper poco». E a proposito di questo, Galileo non può esimersi dal citare il «sapientissimo della Grecia» che per primo ha riconosciuto nell’ammissione del non-sapere il sintomo di conoscenza superiore: Socrate.

L’importanza di sapere di non sapere

Il riconoscimento della propria ignoranza è uno degli elementi fondamentali del metodo socratico. Il filosofo dichiara di non sapere sia prima di affrontare il dialogo su cos’è una certa virtù sia dopo, quando ammette che nemmeno lui è in grado di fornire una risposta sufficientemente esaustiva. Ma come scrive Platone in Apologia di Socrate, riportando le parole che il filosofo avrebbe pronunciato al suo processo: «dovetti concludere meco stesso che veramente di cotest’uomo ero più sapiente io: in questo senso, che l’uno e l’altro di noi due poteva pur darsi non sapesse niente né di buono né di bello; ma costui credeva sapere e non sapeva, io invece, come non sapevo, neanche credevo di sapere».

Il concetto della limitatezza della conoscenza umana, ma anche del carattere aperto e mai concluso della Nuova scienza, è già stato introdotto da Galileo nella Favola dei suoni, parte di Il saggiatore. Qui lo scienziato afferma: «quanto altri meno ne intende e ne sa, tanto più risolutamente voglia discorrerne; e che, all’incontro, la moltitudine delle cose conosciute ed intese renda più lento e irresoluto al sentenziare circa qualche novità».  Bisogna dunque avere un atteggiamento d’umiltà nei confronti della conoscenza come valore assoluto. Essa è illimitata e l’intelletto umano non può che abbracciarla in modo relativo e parziale. Il Dialogo riprende questo concetto e lo esplicita ulteriormente, rafforzando l’idea che dalla presa di coscienza della non-conoscenza nasce l’accettazione del dubbio, motore che spinge l’uomo verso nuove scoperte. 

L’intelletto umano e l’intelletto divino

Galileo, sempre per mezzo di Salviati, aggiunge che ci sono due modi per conoscere: l’intendere «extensive» e quello «intensive». L’intendere extensive si basa sulla quantità e non può mai essere completa perché gli argomenti sono troppi per essere contenuti da un’unica intelligenza. Quello intensive invece si basa sulla qualità. Ci sono scienze i cui principi presi singolarmente possono essere posseduti interamente e definitivamente perché oggettivi, non assoggettabili a interpretazioni. Sono le scienze matematiche pure, le uniche in cui la conoscenza umana può essere equiparabile a quella divina.

L’unica differenza che anche in questo campo persiste tra l’intelletto divino e quello umano è che Dio ha sempre presente tutte le conoscenze nello stesso momento, mentre l’uomo deve procedere per fasi. Ciò non svilisce l’intelligenza umana. Dimostra solo che essa è un derivato di quella divina, il migliore. «Concludo pertanto, l’intender nostro, e quanto al modo e quanto alla moltitudine delle cose intese, esser d’infinito intervallo superato dal divino; ma non però l’avvilisco tanto, ch’io lo reputi assolutamente nullo; anzi, quand’io vo considerando quante e quanto meravigliose cose hanno intese investigate ed operate gli uomini, pur troppo chiaramente conosco e intendo, esser la mente umana opera di Dio, e delle più eccellenti».

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

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