Dino Buzzati e la capacità di riconoscere il prodigioso

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Dalla seconda metà dell’Ottocento nel mondo culturale europeo si diffonde l’idea che per raccogliere qualche frammento di verità occorra una sorta di doppia vista, capace di bucare lo schermo del tangibile per affondare nel mistero della vita. Non basta avere un paio di occhi funzionanti per percepire l’aspetto autentico e insieme straordinario della realtà. Per cogliere il mistero invisibile bisogna stare attenti a non confondere il realismo con l’ottusità, saper sognare e usare l’immaginazione.

Nel racconto Il re a Horm el-Hagar, pubblicato nel 1958 nella raccolta Sessanta racconti di Dino Buzzati, troviamo un direttore di scavi archeologici desideroso di disseppellire i misteri del passato, l’antica statua del dio egizio Thot e un vecchio re che per ottusità scambia un miracolo per un artificio dal meccanismo difettoso. Buzzati descrive quest’ultimo come un «arido vecchio, sordo ai misteri della vita, così misero da non capire neanche che gli aveva parlato un dio».

L’escursione

La storia si svolge presso il cantiere per gli scavi del palazzo di Meneftah II, nella località di Horm el-Hagar, al di là della Valle dei Re. Il protagonista è il direttore degli scavi, «un uomo attempato e geniale» di nome Jean Leclerc, che dopo giorni di solitudine riceve una lettera dal segretario del servizio delle Antichità. È l’annuncio della visita di un«illustre archeologo straniero», un certo conte Mandranico. Leclerc non lo ha mai sentito nominare, ma appena se lo trova davanti capisce di aver giù visto il suo volto sui giornali egiziani. Quel «vecchietto piccolo e segaligno, dalla faccia di tartaruga assolutamente inespressiva» è un re straniero che vive in esilio al Cairo, nonché grande appassionato di etruscologia.

Leclerc conduce il conte Mandranico e i suoi accompagnatori nell’ala laterale del palazzo di Meneftah II. Qui si trova pressoché intatta una cappella, descritta con termini che rimandano al campo semantico del buio e dell’autorità sacrale. «Nella semioscurità, ai lati, si intravedevano alte statue, irrigidite sui troni, alcune decapitate, dalla cintura in giù, esprimevano volontà cupa e solenne di imperio». Tra queste statue c’é quella del dio Thot, senza braccia e con il volto di un uccello dal becco spezzato. Leclerc narra che in antichità questa statua veniva considerata una sorta di oracolo. I re le chiedevano consigli prima di partire per le guerre e essa rispondeva. 

Il prodigio e l’incapacità di guardare

Durante la visita cominciano a verificarsi una serie di eventi inquietanti che ben presto sfociano in uno scenario apocalittico. La voce terribile della statua pronuncia tetre e misteriose maledizioni, la pioggia (evento raro nel deserto egiziano) comincia e cessa all’improvviso, piccole frane smottano qua e là per seppellire di nuovo l’antico palazzo del faraone. Il passato, riportato faticosamente alla luce, sta precipitando di nuovo nell’oblio. Diventa irrecuperabile. 

Davanti a tutto questo il conte non sa dire altro che: «Ingegnoso: proprio ingegnoso… peccato che forse la molla si è rotta». Pensa che sia tutta una sceneggiata per stupirlo. Evidentemente insieme al suo regno egli ha perso anche la capacità di guardare al di là del proprio naso. La sua è una vita che si è prolungata fuori tempo massimo e adesso si dibatte in un deserto esistenziale. Mentre il conte se ne va insieme ai suoi accompagnatori, Leclerc resta a guardare il suo lavoro andare in fumo. Osserva le sabbie che continuano a franare «tratte giù da una forza misteriosa», e riconoscendo di trovarsi di fronte a un evento prodigioso e terribile mormora: «Dio mio».

Foto di Soupy Squirrel da Pixabay

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