Cinema e fumo: una coppia inossidabile

Dopo un decennio di rigoroso bando del fumo dalla mia vita, giorni fa mi è capitato di ripensare alla sigaretta. Aveva ragione mio padre: “Non si smette mai veramente di fumare. Si finge di farlo, come si finge di non amare chi ti ha spezzato il cuore”.

Senza dubbio, il fumo fa male e va disincentivato. Eppure, al di là degli assiomi scientifici incontestabili, nel fumo sopravvive una parte di poesia, forse ancora più irrinunciabile di qualunque dipendenza fisica. Quel bianco rotolino di tabacco, nicotina e catrame, che chiamiamo sigaretta, donandole gusto già solo nel pronunciarne la sibilante, evocatrice di sospiri e sensualità, resta, infatti, il sogno proibito di molti. Un sogno spesso cristallizzato in belle pagine di letteratura, in capolavori cinematografici, cosa che ha indotto alcuni a dar vita a leggi e progetti di legge tesi a bandire il fumo dai film, il che, secondo me, è un po’ come se Daniele da Volterra rimettesse le braghe ai nudi del Giudizio Universale michelangiolesco. Per favore, evitiamo di criminalizzare l’arte. Non c’è nessuna istigazione al fumo in un film, nelle pagine di un libro, in un quadro. Vogliamo condannare anche Smoker 1 (Mouth 12) l’olio su tela di Tom Wesselmann, esposto al MoMA di New York? L’arte non insegna la vita, è la vita ad ispirare l’arte. Certi personaggi sono spesso iconici, hanno un forte impatto nell’immaginario collettivo, è vero, ma pensare ai nostri giovani ed a noi tutti come a tanti imbecilli che assorbono i comportamenti di quei personaggi in modo acritico, mi sembra esagerato. Se così fosse, peraltro, bisognerebbe evitare che nei film apparissero anche armi, alcol, droga, giuoco d’azzardo, suicidi, nonché bibite gassate e dolciumi, che comportano l’insorgere del diabete. E se lasciassimo distinte sanità ed arte?  Un paio di anni fa, contro il progetto di limitare il fumo nei film si sollevarono, giustamente, le voci di Ammaniti, Muccino, Salvatores, Sorrentino, Virzì, della Archibugi e di molti altri. Concordo con loro.

Ricordo che, da bambina, non sempre interessata all’eccessivo buonismo delle fiabe, preferivo lasciare la mia immaginazione libera di vivere avventure esotiche a Mompracem, tra le pagine dei romanzi di Salgari, e, sin da allora, non era Sandokan ad affascinarmi, bensì Yanez, quel portoghese spavaldo, forte e coraggioso, che Philippe Leroy interpretò magistralmente per il piccolo schermo nei primi anni Settanta. E mi chiedo: come immaginarlo senza le sue sigarette, le stesse cento che fumava Salgari mentre scriveva nella sua soffitta torinese? Non è facile; anzi sembra impossibile, come impossibile è rievocare le scene di alcuni tra i più bei film della storia del cinema, senza rievocare, al contempo, quelle nuvole di fumo che avvolgono l’immagine nei loro grigi cangianti, formando caratteri indimenticabili.

Le ha appena detto addio, amandola troppo per volerla con sé; cammina accanto ad un uomo con il quale condivide la speranza di una nuova amicizia; torna verso Casablanca fumando una sigaretta. Sono immagini che vivono in noi. Sublimi. Perfette. Trasmettono l’intensità delle emozioni attraverso ogni particolare e, sicuramente, capiremmo un po’ meno Bogart se il fumo non ci raccontasse il suo pianto represso ed i suoi pensieri per un amore impossibile.

Il fumo, nel cinema come nella vita, non è solo un gesto legato ad un’assuefazione fisica, ma un mezzo espressivo che racchiude in sé una serie di cause ed effetti. Paura, vergogna, gioia, aggressività, solitudine, trasgressione.

“Le cose sono nel fumo, l’arte sta negli anelli” diceva il pittore e scultore Marcel Duchamp. Il cinema sembra aver fatto tesoro di un simile concetto. Nel fumo è avvolta una parte incancellabile dell’iconografia cinematografica. Come possiamo immaginare Jean Gabin senza quella sigaretta sempre stretta tra le labbra, mentre seduceva, mentre correva, persino mentre moriva? I film con Marlene Dietrich, i primi Bond con Sean Connery, i western, i film di Fellini, con il nostro meraviglioso Marcello Mastroianni non sarebbero gli stessi film senza le sigarette. Come non ci sarebbe lo Sherlock Holmes di Basil Rathbone od il Maigret di Gino Cervi senza la pipa, che è comunque un’immagine e non la realtà, proprio come nel provocatorio paradosso dipinto da Magritte, Ceci n’est pas une Pipe.

In Silkwood Maryl Streep fuma perché è l’unica valvola di sfogo rispetto ad una vita pericolosa e poco gratificante, anche sotto il profilo della solidarietà tra colleghi, di una storia sentimentale in fallimento, di un amore omosessuale che, per sua natura, non può corrispondere. Rita Hayworth, in Gilda, fuma perché è sola, infelice e disperatamente innamorata di un uomo troppo orgoglioso per amare; le sue sigarette entrano nella trama stessa del film, lasciando intuire il disagio celato dietro l’indiscutibile fascino di una donna perduta. Dalla Gloria Swanson di Viale del Tramonto alla Bette Davis di Scopone Scientifico, dalla bella e spregiudicata Sharon Stone di Basic Instinct alla Uma Thurman di Pulp Fiction, fino alla femme fatale dei cartoni animati, Jessica Rabbit, il cinema non ha mai saputo resistere al fascino della donna fumatrice, di volta in volta creando dark ladies sempre più aggressive, che nella sigaretta non dissolvono solo le proprie passioni, ma l’essenza stessa dell’emancipazione femminile.

In Chiedi la Luna, un raffinato road movie italiano, Margherita Buy lega al fumo le proprie insicurezze, mostrando aggressività e sfrontatezza, ma, in fondo, cercandosi continuamente; mentre Giulio Scarpati, che interpreta un perbenista intristito da una vita matrimoniale del tutto insoddisfacente con la prima ed unica donna della sua vita, inizia a fumare solo alla fine del film, nel momento culminante della sua crescita interiore, proprio quando la Buy, che forse ha trovato quel che stava cercando, decide di smettere.

L’immagine cinematografica, dunque, crea insondabili abissi meramente intuibili ed il fumo in scena aiuta ad esprimere emozioni, entra nella storia, sostituisce una battuta, si rende protagonista di un messaggio.

Al Pacino è Michael Corleone e sta in piedi sulle scale di accesso dell’ospedale in cui è ricoverato suo padre; accanto a lui Enzo il pasticcere; entrambi salvano la vita al Padrino (The Godfather) mostrando di avere una pistola in tasca che, in realtà, non hanno e, dunque, esponendosi ad un possibile attacco armato senza avere alcuna possibilità di difendersi. Orbene, è quando i nemici se ne vanno che una sigaretta segna la differenza tra il coraggio di Michael Corleone e la mera lealtà di Enzo il pasticcere, il quale tira fuori una sigaretta ma non riesce ad accenderla tanto gli tremano le mani dalla paura. Lo fa per lui Michael, mandandolo via, subito dopo, per proteggerlo.

E che dire del legame balordo tra fumo e poker? Da Paul Newman ne La Stangata a Clark Gable in Via col Vento, passando dal magnifico Walter Matthau de La Strana Coppia, con Jack Lemmon che mette i piattini sotto i bicchieri di whisky ed accende il deumidificatore per purificare l’aria dal fumo.

Ogni sigaretta crea il suo tipo. Steve McQuinn è l’eroe malinconico; Audry Hepburn una sofisticata fanciulla; James Dean è un giovane ribelle; Anna Magnani è una donna ingabbiata negli eventi drammatici della vita. Si potrebbe scrivere un’enciclopedia di caratteri.

In Carol, diretto da Todd Haynes, due donne si innamorano l’una dell’altra nella società puritana degli anni Cinquanta. Il fumo sottolinea la loro indipendenza emotiva. Ci scherzano su: “Quando pensi cos’altro mi può succedere? e ti accorgi che hai finito le sigarette …”, dice la protagonista, magistralmente interpretata da Cate Blanchett.

Con il passare del tempo mutano gli stereotipi, forse, ma non l’efficacia dell’elemento che rappresenta la ribellione: Clarence, l’angelo di Frank Capra ne La vita è Meravigliosa, trova trasgressivo bere del vino cotto con molta cannella, mentre l’arcangelo Michele, interpretato da John Travolta nel Michael di Nora Ephron, fuma senza soluzione di continuità. Qual è il messaggio? Forse risiede nel fatto che anche gli angeli, quando scendono sulla terra, amano macchiarsi di qualche peccato, di qualche errore. Li fa sentire vivi, li fa sentire uomini.

Film come Insider denunciano apertamente i danni del fumo e destabilizzano i magnati del tabacco, portando alla conoscenza del grande pubblico una storia vera che vede la Philip Morris protagonista di un clamoroso processo. Il messaggio è chiaro: non si fuma. Ma cosa accade, in realtà, sotto la spinta dei buoni consigli?

Il fumo non è stato bandito dai film. Anzi, un recente sondaggio del New York Times rivela che è in netta crescita. Forse, si è fatto solo un po’ più “cattivo”, definendo l’interprete di un ruolo problematico: il Leonardo Di Caprio di Django Unchained; lo Sean Penn di Mystic River; il Brad Pitt di Fight Club; la magnifica, impareggiabile Cate Blanchett di Io non sono qui, impegnata ad interpretare en travesti il ruolo di un martire del rock and roll della metà degli anni Sessanta, dietro cui si cela Bob Dylan; il bravo Toni Servillo de La Grande Bellezza, malinconico personaggio avvolto da una nube indistinta di vita varia.

Poi ci sono i veri brutti, sporchi e cattivi, che sono anche fumatori. Gli hanno tagliato via la faccia, lasciandogli solo tessuti grondanti di sangue, eppure la prima cosa che Nicholas Cage fa al risveglio dal coma è accendersi una sigaretta; non vogliamo neppure immaginare come, ci basta sapere che lo fa, definendo, così, ancor più efficacemente, il personaggio: in Face Off di certo è lui il cattivo. Non vi sono dubbi, così come non ve ne sono guardando lo smoker Dannis Hopper in Waterworld. Il cattivo? E’ sicuramente quello con la benda sull’occhio, la faccia dura e la sigaretta in bocca.

In buona sostanza, il sodalizio tra cinema e fumo non è mai finito, né finirà mai. Sono solo cambiati gli schemi di rappresentazione della realtà. La sigaretta è ancora il simbolo di un personaggio di frattura, di quelli su cui Tarantino, Jarmush, Wang o Buscemi costruiscono i propri film, ma l’essenza della negatività sta cambiando: i contestatori nostalgici, i viaggiatori in cerca di se stessi, i contemplativi di una vita che scorre apparentemente senza di loro non fumano, o, meglio, Kasdan e Salvatores, come il Nakace ed il Toledano di Quasi Amici, ci dicono che prediligono qualcos’altro, qualcosa di simile, forse. Ma quello è tutto un altro fumo.

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