Se appartenete a quel 5% delle famiglie italiane che hanno in casa un coniglio da compagnia (solo da noi se ne contano quasi due milioni) probabilmente avete grosse difficoltà a vedere in quel batuffolo di peli dalle lunghe orecchie e dai grandi occhi malinconici qualcosa da mettere in tavola.
È la doppia vita del coniglio contemporaneo diventato, suo malgrado, un «pet» al pari di cani, gatti, canarini e criceti.
Merito della sua grande capacità di adattamento agli ambienti domestici che, pur nella difesa dei suoi spazi (perché a dispetto della sua fama il coniglio è un animale combattivo) gli consente di stabilire una relazione empatica con gli umani, specie se si rispettano alcuni semplici accorgimenti: mai toccarlo sul muso o accarezzarlo sotto il mento, capire, come con il gatto, se non vuole essere toccato o preso in braccio, regalargli una compagnia di suoi simili con cui interagire e giocare.
A questa trasformazione, esplosa da noi nell’ultimo decennio, ma che ha radici antichissime, hanno sicuramente contribuito la letteratura per la prima infanzia, piena di teneri coniglietti da colorare e di storie strappalacrime, e la cinematografia d’animazione: prima del Roger Rabbit del film di Robert Zemeckis, Bugs Bunny, il cinico e scaltro coniglio della Warner Bros perennemente in lite (e perennemente vincente) con il cacciatore di conigli Elmer J. Fudd, il pistolero Yosemite Sam e Marvin The Martian (Marvin il Marziano) un alieno vestito da legionario romano.
Nato negli studi della Warner Bros alla fine degli anni ’30 in contrapposizione al Topolino della Disney Bugs Bunny ha finito col guadagnarsi una stella nella Walk of Fame di Hollywood: niente male per un coniglio.
Il suo tormentone: «What’s Up, Doc?» (che succede, amico?) col quale accoglie il malcapitato aggressore mentre se ne sta tranquillamente appoggiato ad un albero o ad una staccionata sgranocchiando l’immancabile carota ha preso spunto da una famosa scena di un film dell’epoca della sua creazione.
Pochi anni prima della nascita di Bugs Bunny infatti era uscito negli Stati Uniti il film di Frank Capra «It Happened One Night» (Accadde una notte) con il sex simbol Clark Gable (che con una semplice scena senza canottiera fece crollare le vendite di questo indumento) e Claudette Colbert.
Nelle scena in cui i due fanno autostop ai bordi di una strada lo scanzonato Pietro Warne (interpretato da Gable) attende, appoggiato ad una staccionata, l’arrivo delle rare automobili a cui chiedere un passaggio sgranocchiando appunto una carota.
Un modo per trasmettere sicurezza di sé, mancanza di fronzoli, leggerezza nell’affrontare le avversità della vita.
Lo stesso carattere che assumerà Bugs Bunny che almeno inizialmente si giovò della popolarità del film di Capra, vincitore di ben 5 premi Oscar, perché il pubblico riconobbe nel coniglio una simpatica parodia del personaggio di Clark Gable.
La domesticazione del coniglio
La domesticazione del coniglio è un fenomeno relativamente recente, collocabile in ambito monastico durante il medioevo, a partire da un unico capostipite: il coniglio selvatico europeo (Oryctolagus cuniculus) diffuso soprattutto nella penisola iberica, in Francia, ed in Italia, peninsulare e insulare: famoso il coniglio di Ischia, scoperto dai Fenici e poi riscoperto dai Siracusani che ne fecero un’ambita preda di caccia.
Parente stretto della lepre, che però dal punto di vista culinario si ascrive alle carni rosse, mentre la carne del coniglio è bianca, fu ignorato a lungo dalla cucina che gli preferì la prima per la maggiore qualità della carne.
A diffonderne il consumo, ma non l’allevamento, furono i Romani (che si nutrivano anche dei feti dei conigli detti laurices) che vi si erano imbattuti durante la conquista della Spagna.
Benché relativamente facile da catturare con trappole di cibo in prossimità di quelle colture di cui è ghiotto il tentativo di domesticazione in età arcaica del coniglio selvatico fu inizialmente abbandonato poiché se da un lato la proverbiale capacità riproduttiva del coniglio (che lo porta, in condizioni favorevoli, a partorire mediamente 8 cuccioli ogni 4 mesi con un brevissimo svezzamento) lo rendeva una fonte di carne relativamente economica (come lo sarà a partire dalla metà del 1900 quando verranno introdotti gli allevamenti intensivi) dall’altro le difficoltà di allevamento controllato sembravano insormontabili o quantomeno del tutto sproporzionate.
Grande scavatore, al punto che il suo nome deriva dalla parola cunicolo, il coniglio si fa beffe di reti e recinzioni mentre l’allevamento in gabbia (conigliera), che ad un certo punto sarà preferito per gli allevamenti più piccoli, aumenta i rischi di malattie mortali e di estinzione della colonia in cattività.
Anche se in natura il coniglio selvatico ha moltissimi predatori, compreso il cinghiale, paradossalmente proprio l’essere attirato dalle colture lo protegge dai suoi naturali nemici visto che quegli stessi predatori sono allontanati dalla presenza umana.
Questo ha fatto sì che il coniglio selvatico diventasse, nei periodi di massima proliferazione, un vero flagello per le coltivazioni: uliveti, orti, frutteti (è ghiotto in particolare di ciliegie) campi di cereali sono il suo «terreno di caccia» preferito e laddove non mangia (dai germogli alle radici sino ai frutti) rosicchia facendo facilmente ammalare le piante.
Per questo motivo il coniglio selvatico ha alternato periodi di estrema diffusione, che in alcuni luoghi lo hanno fatto addirittura qualificare come infestante, a periodi di caccia indiscriminata che ne hanno decretato la scomparsa in alcune zone anche per lunghi periodi.
L’allevamento del coniglio a fini alimentari
La maggioranza dei conigli che arrivano sui banchi di macelleria proviene da allevamenti intensivi: si stima che in Italia vi siano mediamente in queste fabbriche circa 20 milioni di esemplari.
Una buona percentuale tuttavia proviene da allevamenti in conigliere rispettosi del benessere animale e quindi dotati di spazi sufficienti quantomeno a limitare le sofferenze di questo piccolo e prolifico animale.
Più ridotta, anche per ragioni di costi, la produzione in semilibertà secondo i metodi tradizionali.
Quello più antico è il francese della garenne (un articolato sistema di muri e fossati che lascia comunque un habitat relativamente selvatico ai conigli) talmente diffuso oltralpe che in Francia il coniglio allevato è chiamato anche «Lapin de garenne».
Di poco successivo alla garenne, e strettamente legato alle particolari condizioni ambientali, è invece il sistema ischitano delle fosse.
Il coniglio di fossa ischitano
La bellissima isola dell’arcipelago flegreo, facilmente raggiungibile via mare da Capo Miseno dove a lungo stazionò la flotta romana, ha una storia controversa.
Da un lato, infatti, ha costantemente attratto, sin dal neolitico, le popolazioni più diverse: Fenici, Cumani, Siracusani, Romani e tutti i popoli che si sono succeduti nel Regno di Napoli, attratti dal clima, dalla facilità di difesa dell’isola, dalle acque termali e dai giacimenti ferrosi, dall’altro la sua natura vulcanica diffusa, con la presenza di piccoli vulcani superficiali detti fumarole, ed un’incessante attività sismica hanno costretto le diverse popolazioni che l’hanno abitata ad adattarsi o, in taluni casi, ad abbandonarla completamente.
La natura dell’isola, inoltre, pur nella fertilità del suolo vulcanico, rende difficoltosa l’agricoltura per il numero insufficiente di fonti di acqua potabile soverchiato da quelle di acque termali di cui è ricca al punto che vi è una baia, Sorgeto, in cui una sorgente termale sommersa rende possibile fare il bagno anche in pieno inverno.
La presenza del coniglio selvatico ad Ischia, che pur provenendo dallo stesso ceppo europeo si era sviluppato in una razza autoctona, è stata quindi vista come un flagello.
Oltre agli ostacoli legali, correlati alla natura demaniale della fauna selvatica, la cattura dei conigli è sempre stata resa difficoltosa dalla stessa struttura del territorio ischitano ricco di cavità e grotte naturali che lo hanno reso nei secoli l’habitat ideale per i conigli selvatici.
Intere colonie di conigli selvatici, infatti, adattando le grotte naturali, trascorrevano in questo sistema di cunicoli la maggior parte del tempo salve le periodiche sortite notturne nei campi, nelle vigne, negli orti e nei frutteti.
Trasformando una difficoltà in un’opportunità gl’ischitani hanno quindi riprodotto artificialmente questo habitat, rendendolo controllato, immettendo nelle nuove fosse i conigli catturati che si sono facilmente adattati e hanno reso il coniglio di fossa, ora presidio Slow Food, la pietanza di carne tipica dell’isola: una prelibatezza arricchita da erbe aromatiche, peperoncino e pomodorini vesuviani.
La presunta coprofagia del coniglio
Uno dei luoghi comuni più diffusi sul coniglio è che esso sia coprofago e questo lo rende, agli occhi di taluni, ripugnante.
In realtà il coniglio non si nutre delle proprie feci, ma recupera, per poter sostenere un’alimentazione povera di proteine, il prodotto della fermentazione cecale, detto ciecotrofo e ricco di proteine e vitamine.
Un processo naturale e fisiologico non dissimile da quello dei ruminanti solo che nessuno si sogna di definire disgustosi i bovini perché rimasticano gli alimenti già ingeriti.
Visentini magna gati
«Venexiani gran signori, padovani gran dotori, trevisani pan e tripe, rovigoti baco e pipe, veronesi tuti mati, visentini magna gati»: una vecchia filastrocca assegna ai vicentini la nomea di «magna gati», letteralmente: mangiatori di gatti.
La sua origine è incerta, ma è assai probabile che si leghi alle periodiche pestilenze del Veneto sotto il dominio della Serenissima, per debellare le quali le città colpite venivano ripopolate di gatti i quali, passata l’emergenza sanitaria, ma non quella alimentare dovuta alla lunga quarantena, venivano direttamente messi in pentola.
Una pratica ricorrente in moltissimi posti colpiti da crisi alimentari che però si è legata indissolubilmente solo a Vicenza ed è ormai ritenuta talmente ripugnante da far costare il posto, nella popolare trasmissione culinaria «La prova del cuoco», al compianto gastronomo Beppe Bigazzi che ebbe l’ardire di citarla menzionando un proverbio toscano («a berlingaccio [giovedì grasso ndr] chi non ha la ciccia ammazzi il gatto») e le tecniche per migliorare il sapore della carne di gatto.
In Italia seppure non esiste una normativa che vieti esplicitamente il consumo di carni feline è tuttavia assente una normativa che ne disciplini, a fini sanitari, la macellazione e la vendita il che rende il consumo di carne di gatto illecito visto che la macellazione domestica, da non confondere con quella eseguita sotto controllo sanitario nei piccoli allevamenti delle aziende agricole, è interdetta dalle norme sanitarie.
Parliamo di carne di gatto perché essa rappresenta la forma più diffusa di contraffazione della carne di coniglio.
Agli occhi meno esperti le differenze anatomiche tra i due animali scuoiati sono davvero minime mentre pare che al gusto le carni siano molto simili o almeno lo affermano le popolazioni di quei Paesi, come l’Indonesia, in cui il gatto, al pari del cane, è allevato a fini alimentari.
Per quanto riguarda il coniglio la legge ne consente la vendita anche in tagli preconfezionati e quindi senza la testa e le cosce che sono i due elementi anatomici che più facilmente rendono distinguibile la carne di coniglio da quella di gatto.
Come sempre, quindi, la differenza e la garanzia di autenticità la creano il rapporto di fiducia che si deve sempre instaurare tra chi produce e/o vende cibo ed il consumatore finale.
Il coniglio in cucina
La diffusione del consumo della carne di coniglio è avvenuta solo con gli allevamenti intensivi nati a metà del 1900, ma già sotto il fascismo i piccoli allevamenti in conigliera furono incoraggiati per limitare l’importazione di carne.
Ancora oggi, malgrado la disponibilità di prodotti di alta qualità a prezzi abbordabili, il coniglio, che in moltissimi Paesi non è consumato affatto, occupa gli ultimi posti nella scelta dei consumatori.
Sia la tradizione ebraica, sia quella islamica ne rifiutano il consumo e questo ne ha in parte frenato l’impiego nella cucina popolare dove si è imposto soprattutto grazie alla disponibilità a costi abbordabili ed alle sue virtù salutistiche che lo avvicinano al pollo.
Amato per le sue proprietà alimentari o odiato per la difficoltà di estrarne la carne al punto da far sospettare una bassa percentuale di edibilità (che invece è superiore al tacchino e si avvicina al pollo) rispetto al suo apparato scheletrico, il coniglio è una piccola sfida culinaria perché il sapore della sua carne è neutro e renderla gustosa è meno facile di quanto si possa immaginare: per questo la maggior parte delle ricette prevede un uso assai consistente di erbe aromatiche, come nel coniglio ligure, o del pomodoro, come nel coniglio all’ischitana o in quello alla romana.
Un altro fattore che rende invisa a qualcuno la carne di coniglio è la fragilità delle sue ossa che durante la lavorazione ne aumenta il rischio di rotture e la creazione di fastidiose, ed in taluni casi, specie per i bambini, pericolose schegge ossee per ridurre le quali è sempre preferibile seguire l’anatomia del coniglio, da acquistare intero o al massimo diviso a metà, in modo da operare il frazionamento in corrispondenza delle articolazioni anche a costo di creare porzioni più grandi.
A differenza del pollame, la cui pelle è edibile e quindi viene venduto anche con il suo rivestimento esterno, il coniglio è difficile da disossare con risultati esteticamente e funzionalmente accettabili e tale difficoltà aumenta con la qualità della sua carne visto che i conigli più pregiati hanno una ridottissima copertura carnica della spina dorsale.
Se fatta a regola d’arte, o se ci si accontenta di risultati estetici non perfetti, la carne di coniglio disossato dà però grandi soddifazioni nella preparazione in porchetta o come alternativa alla carne ovina nel kebab.
Il coniglio è poi protagonista di un succulento piatto della tradizione monferrina: il «tonno di coniglio» in cui la carne, dopo la bollitura, viene lasciata ad insaporire in olio extravergine d’oliva aromatizzato con spezie ed erbe.
Con i rognoni di coniglio, che solitamente vengono venduti assieme ai conigli interi, si preparano infine ottimi paté.
Il coniglio come animale da compagnia
Concludiamo questo breve percorso tornando all’allevamento del coniglio come animale da compagnia.
Una pratica che da noi ha iniziato a prendere piede in modo crescente solo nel nuovo millennio, ma che gli anglosassoni coltivano sin dall’epoca romana al punto che sia nelle isole britanniche sia, per riflesso, negli Stati Uniti, l’allevamento del coniglio a fini alimentari è considerato da molti disgustoso come lo sarebbe da noi quello del gatto o del cane.
In una famosa striscia dei Peanuts creati da Charles M. Schulz Snoopy, il celeberrimo bracchetto diventato uno dei personaggi più popolari della serie, ritorna indignato da una visita a suo fratello Spike per il giorno del ringraziamento dopo aver scoperto che i coyote, con cui vive Spike in una non ben definita zona desertica, si cibano di quei coniglietti che invece Snoopy adora e che si rifiuta di cacciare come talvolta qualcuno lo invita a fare.
In Gran Bretagna il coniglio come animale da compagnia divenne di moda nell’alta società in epoca vittoriana, e quindi nella seconda metà del 1800, in cui nacquero le prime mostre di conigli da compagnia e si diffuse soprattutto il coniglio ariete inglese, con le orecchie basse ed il pelo di vari colori, dal bianco al blu, dal miele al nero, mentre il parlante Bianconiglio entrò nella letteratura d’infanzia grazie ai romanzi della serie di Alice di Lewis Carroll.
In Italia il coniglio da compagnia, che si adatta tranquillamente a convivere con cani e gatti, si sta diffondendo di pari passo con la diffusione degli animali empatici che ormai fanno parte della vita di un numero crescente di persone.
Che sia questo il futuro del coniglio domestico?
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