Riflessioni su un referendum fallito

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Domenica 8 e lunedì 9 giugno 2925 i cittadini italiani aventi diritto al voto sono stati chiamati a partecipare ai referendum popolari abrogativi su 5 quesiti in materia di disciplina del lavoro e cittadinanza.
Il referendum si è concluso con una netta maggioranza di Si in tutti e cinque i quesiti, ma non ha validità perché l’affluenza è stata solo del 30,5%, inferiore al quorum del 50% previsto dalla Costituzione.
Non sono un politologo ma 48 anni da magistrato mi hanno insegnato ad interpretare gli eventi con obiettività e senza pregiudiziali.
Sul tema enunciato scriverò senza accampare specifiche competenze ma da cittadino cercando di capire e spiegare cosa è successo l’8 e il 9 giugno e che cosa significhi nella vita politica italiana.

E’stato utile o inutile il referendum?

La risposta dei politologi è stata dura: inutile. Giudizio sbagliato, superficiale, talora settario. Indubbiamente non è stato efficace.

Un quorum del 50% +1 su una piattaforma elettorale che va dal 72% del 2018 al 64% del 2022 è un traguardo difficilmente raggiungibile. I padri costituenti l’avevano fissato in quella misura perché intendevano porre agli elettori quesiti di ampio respiro, come il costume, l’etica, il sentimento civico, i valori nazionali, superando il filtro della rappresentatività, ma rispettando l’eccezionalità del ricorso a forme di democrazia diretta. Il successo dei referendum sull’aborto, sul divorzio e gli altri temi affrontati in ben 31 interpelli del giudizio popolare dicono quanto fosse saggia quella scelta.

Gli insuccessi dicono invece che i proponenti hanno dimenticato lo spirito della Costituzione, sottoponendo a referendum materie tipicamente di ordinaria legislazione. Comunque, anche in questi casi un referendum fallito è sempre un evento politico di alto significato che  fornisce  ai poteri dello Stato informazioni preziose sui sentimenti e gli orientamenti popolari.

14 milioni di voti

Qualcuno ha sostenuto che quel 70% di non votanti ha espresso una tacita approvazione delle leggi vigenti. È una forzatura contraria alla logica e alla psicologia. Se quel 70% di astenuti avesse nutrito veramente questa convinzione avrebbe potuto e dovuto palesarla recandosi alle urne e barrando il no.

Va detto senza falsi ritegni che gli astenuti sono degli ignavi che non assumono responsabilità e devolvono ad altri decisioni vitali: sono quelli che, per dirla alla Grillo, se ne fregano. Chi tace non acconsente, tace e basta.

Dunque, questo sfortunato referendum ha detto chiaramente che sul tema del lavoro c’è forte sensibilità e forte preoccupazione. E’ un messaggio che non può essere ignorato e che ha il valore di un ampio sondaggio condotto su un’area di grande valore e attendibilità, più di qualsiasi campione statistico.

Non voglio dare suggerimenti a Landini ma penso che 12 milioni di NO siano ben più vincolanti delle 500 mila firme occorrenti per avanzare una proposta di legge di iniziativa popolare.

Una piccola nota sui costi

Si è detto: abbiamo sprecato 300 milioni di euro.

Non è così. Abbiamo speso 300 milioni di euro: spese per attrezzare i seggi  per pagare gli scrutatori, per comprare i materiali occorrenti, per acquistare caffè e colazioni, per pagare mezzi di trasporto. Insomma le risorse impiegate hanno attivato circuiti economici contribuendo alla circolazione del capitale e al sostegno dell’economia reale locale e nazionale.

Foto di Mohamed Hassan da Pixabay

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