Nella trentesima domenica del tempo ordinario ci viene proposta, tratta dal Vangelo secondo Luca al capitolo diciottesimo, la seconda parabola sulla preghiera. Domenica scorsa abbiamo meditato sul racconto del giudice iniquo e della vedova che chiede giustizia; in questa domenica ci è proposto l’esempio di due persone che salgono al Tempio per pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo è l’uomo della legge, religioso, praticante e osservante scrupoloso; il pubblicano è invece un uomo legato al mondo del commercio, degli affari, connivente con i nemici romani e quindi, strutturalmente un peccatore. Due persone che pregano. Il fariseo prega lodando se stesso, ringraziando Dio, ma ringraziandoLo di quanto l’ha fatto buono e vanta le sue pratiche religiose: “Digiuno due volte alla settimana, pago le decime di tutto ciò che possiedo”. L’altro invece, sa di non avere meriti, si batte il petto, rimane in lontananza, non osa alzare gli occhi al cielo e dice: “O Dio, abbi pietà di me, peccatore”. Gesù conclude questa parabola, che è piuttosto un esempio con un’affermazione sconcertante: “Il peccatore che riconosce di essere tale e chiede misericordia torna a casa giustificato; l’altro invece, che pretende di essere giusto torna a casa non giustificato. L’evangelista ci ha aiutato a capire il senso di questo racconto dicendo che Gesù raccontò la parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri. È una parabola contro i presuntuosi religiosi, quelli che si credono giusti. Ricordate la parabola di domenica scorsa? “Forse il Signore non farà giustizia ai suoi eletti che giorno e notte gridano a Lui?” “Fare giustizia” significa “far diventare giusti”. Il peccatore, ossia il pubblicano, sta chiedendo al Signore “fammi giustizia”. L’altro invece, presume di non averne bisogno di essere già giusto e quindi torna a casa non giustificato, non trasformato, la sua preghiera non gli è servita, non lo ha cambiato, non lo ha migliorato. Il peccatore invece, si è aperto a questa grazia trasformante. Di fronte alla presunzione Gesù loda l’umiltà di chi riconosce in piena verità di essere debole e peccatore; non lo dice per fingere o per ipocrisia ma ne è veramente convinto! Come prima lettura ci è proposta una pagina sapienziale, tratta dal libro del Siracide. Un professore di Gerusalemme del II secolo a.C. che ha raccolto una ricchissima antologia di formule proverbiali, nel breve brano che ci è proposto dalla liturgia si dice: “La preghiera del povero attraversa le nubi”. La preghiera della persona umile arriva a Dio, invece la preghiera arrogante non arriva da nessuna parte; e il Salmo responsoriale tratto dal Salmo 33 insiste ancora sulla povertà ma qui non è questione di soldi: “Il povero grida e il Signore lo ascolta”. Il povero che grida è il pubblicano, è il peccatore, è colui che si considera povero di meriti, di titoli di onore, non ha delle ricchezze personali da vantare di fronte al Signore. Il povero grida chiedendo giustizia, giorno e notte, e il Signore lo ascolta, prontamente fa giustizia, ma se grida il ricco presuntuoso il Signore non lo ascolta. Nella seconda lettera di San Paolo a Timoteo ascoltiamo l’ultima pagina, proprio l’ultima parola dell’Apostolo prima della sua condanna a morte. Ne è consapevole, lo dice espressamente: “Io so già di essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita; ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno”. Da giovane san Paolo era fariseo e aveva imparato a pregare come il fariseo della parabola, orgoglioso e presuntuoso nella sua religiosità. Poi ha incontrato il Signore Gesù, ha combattuto la buona battaglia contro quell’orgoglio profondo che aveva dentro e ha terminato la corsa. Adesso, alla fine della sua vita si rende conto che la corona di giustizia, è quella che gli viene dal Signore. Lo ha liberato! Non lo ha liberato da Nerone, infatti quel carnefice gli taglierà la testa, ma lo ha liberato dal suo orgoglio, dalla sua presunzione. Adesso, alla fine della vita san Paolo è veramente grande, è un pover’uomo, abbandonato nelle mani di Dio, portato dal carnefice all’esecuzione, ma grande: “il povero grida e il Signore lo ascolta, lo libera”. Paolo è un fariseo che è tornato a casa giustificato. Ha ragione il S. Padre ad esprimersi in questi termini: «Vogliamo vedere Gesù» – è la richiesta che alcuni greci presentano all’apostolo Filippo. Essa risuona anche nel nostro cuore in questo mese di ottobre, che ci ricorda come l’impegno e il compito dell’annuncio evangelico spetti a tutta la Chiesa, missionaria per sua natura e ci invita a farci promotori della novità della vita, fatta di relazioni autentiche, in comunità fondate sul Vangelo. In una società multietnica che sempre più presenta e sperimenta forme di solitudine e di indifferenza preoccupanti, i cristiani devono imparare ad offrire segni di speranza e divenire fratelli universali. Che profeta! A volte, manchiamo di senso religioso e morale, non c’è più il timor di Dio. Manca la capacità di pregare, di sperare, di vivere con gioia. Spesso parliamo di noi stessi come se fossimo padroni della nostra vita tralasciando la responsabilità del suo impegno. Ci chiudiamo troppo nel sociale, senza avvertire che tutto il nostro essere, il nostro vivere, deve avere un’apertura verso Dio. Presentiamo a Dio queste intenzioni e preghiamo così: Gesù, tu guardi il mio cuore: accendi nella mia preghiera il fuoco della carità perché sia cosciente di avvicinarmi a te ed essere contagiato dal tuo amore. Amen.
Fra Frisina
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