Obbligo “flessibile” e (in)certezza del diritto

Il fatto che la società civile sia costretta a sopportare che lo stato di diritto soccombe sempre maggiormente alla velocità con cui si consumano (e confondono) notizie e lesioni, fatti e fakes, giudizi via social ed esiti di processi giudiziari veri, non significa che debba perdersi il senso generale della effettività reale che – fino a prova contraria – deve necessariamente uniformarsi alle regole preventivamente predisposte dal legislatore.

Alcuni giorni fa, con la violenza di una mannaia, la complessa vicenda dei vaccini è stata “parcheggiata” in formato “cinque (assurdi) articoli di un disegno di legge” in un’area neutra, anche al riparo dai media che non ne hanno più fatto neanche la minima menzione.

In pratica, l’iter legislativo che disciplinerà il settore della prevenzione dalle possibili malattie gravi a cui sono esposti i bambini nelle scuole, sarà connotato dall’espressione “obbligo flessibile” che è degna della bocciatura secca all’esame di diritto privato nel primo anno di corso nelle facoltà giuridiche.

Non è mancato chi ha cercato di liquidare questa demenziale e pericolosissima diade lessicale come ossimoro grammaticale, quasi volendole attribuire una significanza di tipo romantico. Ma bisognerebbe spiegare a questi maestri del nulla che il linguaggio delle regole giuridicamente rilevanti ubbidisce a ben altri criteri, ovvero quello del principio di causa ed effetto, soprattutto nella loro descrizione elementare che implica necessariamente la sostanza di quel che una legge vuole e deve prevedere per imporre senza riserve ai cittadini il fatto oggettivo di doverla obbligatoriamente rispettare.

E infatti, la necessaria struttura ipotetica della norma impone una determinata conseguenza ricollegabile alla descrizione di un preciso fatto, attraverso la notoria sequenza astratta delle “fattispecie”.
E invece accade che chi è adesso preposto alla regolamentazione degli affari sanitari rischia di far saltare questo delicato e determinante meccanismo operativo nella scrittura delle leggi, che poi dovranno essere interpretate dai giudici.

In un tema come le vaccinazioni di bambini, offrendo anche la più vaga possibilità di discostarsi dall’obbligo di prevenire il rischio di malattie contagiose e spesso mortali con conseguente rischio di gravi pericoli per la collettività infantile, rende il relativo obbligo del tutto privo di coercibilità, quindi del tutto inutile ma soprattutto pericolosamente dannoso.

In linea di principio generale, si sta creando il presupposto per togliere valore giuridico ad un obbligo in sé attraverso la legittimazione di un aggettivo incompatibile con un sostantivo di significato chiaro all’interno del sistema regolamentare e normativo che dovrebbe tutelare la sanità pubblica. E si sta  “bollando come clausola di stile” il fondamentale principio generale e costituzionalmente garantito secondo cui “la legge è uguale per tutti”.

Sul piano della giustificazione, poi, si sconfina nel paradosso, perché una scelta orientata a intervenire in funzione delle eventuali emergenze sanitarie, vanifica il senso stesso della vaccinazione in sè, che diventerebbe semplicemente uno strumento di “cura” e non più di “prevenzione” (che è propria dei vaccini) a fronte di un rilevato stato endemico tardivo che avrebbe già causato danni alla salute di altri  bambini. In pratica, si sta conferendo dignità giuridica al principio secondo cui è giusto e legittimo intervenire come quando “si chiude la stalla quando i buoi sono ormai già scappati”.

Bisognerebbe spiegare ai nostri attuali dirigenti politici che il linguaggio legislativo-provvedimentale ubbidisce a criteri rigidi perché esso deve corrispondere al valore delle regole che impone; questo è un dato di coerenza formale e sostanziale sul quale si fonda e si regge il nostro stato di diritto.

Quest’ultimo nasce infatti solo ed esclusivamente per regolamentare la collettività organizzata, affinché  – come da sempre è fin dai tempi dell’antico diritto romano –  “ne cives ad arma veniant” (cioè “si eviti che scoppino le guerre”).

E la certezza del diritto si fonda solo ed esclusivamente sul rigore linguistico delle disposizioni normative che accompagnano le norme sostanziali a tutela di un determinato settore e che devono essere emanate attraverso l’uso appropriato tecnicamente perfetto, chiaro e incontrovertibile delle parole delle leggi scansionate in coerenza concettuale tra esse.

Già immagino le risse tra i genitori davanti alle scuole, i morbilli mortali et similia per i piccini che dovranno soccombere alla flessibilità dei compagnetti più immuni di loro soltanto per dono di madre natura.

Immagino anche il mio tavolo pieno di nuovi fascicoli, per i quali quali sarò costretta a lottare per dimostrare che è vero tutto come il contrario di tutto, con costante malumore per la rabbia di dover fare l’avvocato in questo modo e per queste assurde questioni, nate da un malinteso linguistico-concettuale.

E non oso pensare, infine, al futuro abuso del contagiosissimo (è proprio il caso di dirlo) concetto della flessibilità in generale, magari in tema di obblighi più pressanti, come quelli di imposizione tributaria, per la concessione di ferie estive e congedi parentali e chi più ne avrà, più ne metterà.

Scatenare la fantasia è un piacere per tutti, ma lasciare al cittadino l’esercizio del libero arbitrio in danno ad altri in tema di salute pubblica, lasciandogliene la giustificazione aperta con regole impositive scritte in maniera confusa, incoerente, contraddittoria e inopinatamente libertaria, è semplicemente inaccettabile.

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