Non essere cattivo: l’inferno borgataro e tossico di Claudio Caligari

non-essere-cattivo-il-film-di-caligari-sara-a-venezia-grazie-a-valerio-mastandrea-v2-233512-1280x720Claudio Caligari aveva ambientato il suo primo film, “Amore tossico” agli inizi degli anni ‘80 a Ostia. E a Ostia, questa volta nel 1995, si svolgono le vicende dei personaggi di “Non essere cattivo”. La Macro-storia non è mai mostrata, ma si capisce che è passata un’era geologica dal contesto che circondava le sbandate avventure del primo film: dalla fine dei libertari e terroristici anni ’70, agli albori dell’era di Forza Italia in politica, dall’era del “vietato vietare” e delle marce per i diritti, all’epoca del consumismo televisivo e del desiderio illimitato (e indotto) del superfluo.

Caligari ha voluto questo film con tutte le forze, le poche forze che gli rimanevano, essendo da tempo malato. Lo ha girato in condizioni di salute precarie, per non dire critiche, supportato dall’ottimo cast tecnico.

In primis Valerio Mastandrea nelle vesti di produttore esecutivo, che era andato persino a bussare alla porta di Martin Scorsese, in un accorato e commovente video-messaggio lanciato nell’etere lo scorso anno. E a Maurizio Calvesi ottimo direttore della fotografia, a dare una patina allucinata e metallica a questa vicenda di crudo realismo.

Se con il suo secondo film del 1997, “L’odore della notte”, Caligari aveva tentato di dare alla pellicola un taglio narrativo (la storia di un piccolo delinquente in carriera interpretato dal fidato Valerio Mastandrea), qui ritorna alle modalità narrative del suo primo, incisivo lungometraggio.

Non più dunque una trama lineare, ma le ondivaghe scorribande di due tossici impegnati in piccoli furti, raggiri e truffe di vario genere. Oltre alle situazioni sentimentali in cui i due si trovano malgrado loro invischiati.

Su alcuni punti però i due film differiscono: in “Amore tossico” era l’eroina la droga che seduceva i protagonisti e ne condizionava completamente la vita.

Qui i protagonisti stanno “a rota” con le pasticche e con la polvere bianca: ecstasy, speed, acidi, cocaina. Le droghe dei ricchi, le droghe sintetiche che circolano nelle discoteche. I due protagonisti non sono quindi degli emarginati sociali e psichici come potevano essere gli eroinomani. Riescono a mantenere una certa lucidità, fanno affari con i piccoli boss del litorale, riescono ad avere la concentrazione per ordire truffe e organizzare rapine da semi-professionisti del crimine. Quindi la prima differenza è questa: i diseredati di oggi sono più organizzati, non si fanno fottere il cervello e il corpo da droghe senza ritorno, sanno tenere la testa a posto, sono piccoli uomini d’affari. Anzi a loro gli eroinomani fanno schifo, come dicono esplicitamente in una sequenza del film, li considerano rottami senza via d’uscita e senza scampo, condannati all’emarginazione anche dai tossici loro simili.

A questi nuovi tossici il consumismo è entrato in circolo, ha pervaso il corpo, il cervello. I tossici moderni raccontati da Caligari ambiscono, nonostante le devianze e le deviazioni psicopatologiche, ad una vita normale, borghese. Anche se vedremo che non tutti riusciranno a tener fede fino in fondo a queste premesse. Lo sguardo che Caligari posa su di loro è meno empatico che con i drogati senza speranza del suo primo film, in fondo li vede meno puri nella disperazione, più compromessi con un potere che comunque li seduce per poi ingannarli e lasciarli senza nulla in mano. Questi nuovi emarginati credono di poter tenere a bada il loro demone, ma si sbagliano.

Il film mostra le loro avventure sgangherate, senza un vero filo conduttore nella trama. Il racconto procede per accumulazione: i tossici che pippano, i tossici incontrano le fidanzate, sbandate anch’esse, i tossici che tentano di darci un taglio e mettersi a lavorare in cantiere, con esiti piuttosto tragicomici. Su tutto la loro famelica voracità ipercinetica, il loro vagare per le strade e per la città con inesauribile coazione a non adagiarsi ad una vita omologata.

La mimesi che Caligari riesce a imprimere al racconto è impressionante: sembra di essere lì, al baretto fatiscente dove il gruppo progetta le peggio malefatte, oppure negli squallidi sottoscala dove i due amici pippano di brutto e rimangono stesi sul pavimento in preda alla fattanza. In questo il film raggiunge un livello di realismo difficilmente riscontrabile nel cinema di oggi, questo anche grazie alle interpretazioni di Alessandro Borghi e soprattutto a quella formidabile di Luca Marinelli. Smessi i panni del nerd nevrastenico e del fricchettone, che gli avevano fatto indossare rispettivamente Saverio Costanzo e Paolo Virzì, Marinelli dà vita al più sbandato e disperato dei due borgatari, regalando al personaggio, oltre ad un dialetto romanesco impressionante per veridicità e calco dal vero, anche una movenza dinoccolata, eccentrica, lunatica, da vero sorcio dei bassifondi.

Walter Siti nel suo “Il contagio” racconta di come la droga sintetica abbia pervaso le borgate, sia diventata feticcio di molti e motivo di arricchimento e di affari (per pochi). Caligari ci offre lo stesso spaccato sociologico. Mentre nel primo film era vicino allo stile pasoliniano, manierato, frontale e “rozzamente” semilavorato, qui il suo lavoro si fa più rifinito, più cinematografico, con tagli di luce sofisticati, movimenti di macchina, montaggio e filaggio dei movimenti degli attori accurato e preciso, anche nella concitazione delle situazioni dinamiche e di sbando. Segno che, anche stilisticamente, mantenere la “purezza” pittorica che era cara a Pasolini è ormai impossibile. La Realtà si muove, cambia, e bisogna tentare di stargli addosso. Ormai siamo ibridati con i tempi nuovi, come i tossici che tagliano la cocaina con la polvere delle pasticche. E’ tutto mescolato, droga, affari, finanza. Ci siamo dentro. Bisogna mordere questa Realtà con tutte le forze, per non essere morsi.

Caligari è morto, e si porta con sé la sua dura scuola di verità e di verismo: un cinema che oggi non sa fare quasi più nessuno, a metà fra il piglio documentaristico e il violento apologo estetizzante e decadente su di una umanità perduta. Non è in concorso a Venezia, è stato detto che la morte del regista avrebbe potuto influenzare la giuria. Ma verrà comunque celebrato il talento e la caparbietà di un regista che ha realizzato solo tre film nella sua carriera. Come diceva Mastandrea, Caligari “non conosceva il pareggio”, e il suo cinema rimane una delle testimonianze moderne di resistenza alle necessità del mercato e di coerenza con la propria cifra stilistica, dura ma vitale, disperata ma dal piglio aguzzo. Aguzzo come lo sguardo di chi guarda dritto dentro l’inferno, con coraggio, e come diceva il suo maestro Pier Paolo Pasolini, “senza tentennamenti, ma con la marmorea volontà di capirlo e interpretarlo”.

di Gianfranco Tomei

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