“… non a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità” (1 Gv 3, 18)

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Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto” (Gv 15, 5). I versetti del Vangelo di oggi ci proiettano ancora una volta nel mistero pasquale di Cristo. La Risurrezione di Gesù, infatti, ci rivela la vita che non muore più, la vita divina che per l’uomo e per l’umanità rappresentano l’anelito più profondo a cui tendere continuamente.

 

Inoltre, la Risurrezione del Signore rappresenta il vertice e il compimento di tutta la storia della salvezza. Questa verità, che è pure certezza per i credenti, ci è presentata in modo particolare in questa quinta domenica di Pasqua attraverso la suggestiva immagine della vite e dei tralci. Io sono la vite, voi i tralci” (Gv 15, 5), dice Gesù ai suoi Apostoli durante l’Ultima Cena. Da queste parole capiamo quanto sia intimo il rapporto che Egli nutre nei confronti dei suoi discepoli, così stretto che – aggiunge Gesù – “senza di me non potete far nulla” (Gv 15, 5). L’uomo che, invece, ieri come oggi, crede di poter fare a meno di Dio è come il tralcio staccato dalla vite: “secca, poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano” (Gv 15, 6). In altre parole, i credenti che sono uniti a Gesù vivono della sua stessa vita ed ottengono ciò che Gli chiedono; al contrario, separato da Dio, l’uomo sprofonda nell’abisso del “non senso”.

 

Ecco perché il legame tra Cristo e i suoi discepoli non può sussistere a prescindere dal Padre: “Io sono la vera vite e il Padre mio è l’agricoltore” (Gv 15, 1). Nell’allegoria, infatti, il rapporto con il Padre è fondamentale: il legame dei tralci con la vite ha il suo principio primo e il fine ultimo nella relazione con Dio Padre, definito da Gesù stesso “agricoltore”. È il Padre, quindi, a prendersi cura dei tralci e a seconda che diano o che non diano frutto, riserva loro un trattamento diverso. La Parola del Vangelo di questa Domenica ci dice che per essere fecondi di opere buone si deve passare attraverso la potatura, momento alquanto necessario per essere purificati ed irrobustiti.

 

E proprio dall’immagine della potatura che possiamo comprendere un poco il motivo per cui Dio a volte permette che i buoni soffrano di più: Egli sa bene di poter contare sulla loro generosità, attraverso la quale li rende sempre più ricchi di buoni frutti. L’importante è non avere la pretesa di portare frutto da soli. Ciò che occorre è mantenere forte, soprattutto nel triste ma salutare momento della prova, il nostro legame con Gesù.

 

È la seconda lettura a svelarci tale legame, la cui intensità ci è data dalla qualità delle nostre opere, del comportamento e della coscienza: “Chi osserva i suoi comandamenti, dimora in Dio e Dio in lui” (1Gv 3, 24). I comandamenti a cui accenna l’Evangelista si riassumono tutti nel dovere di amare i fratelli “con i fatti e nella verità” (1 Gv 3, 18). Se agiamo in questi termini, saremo inseriti nella vite che è Cristo e “rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri” (1 Gv 3, 20). Star bene con la coscienza, allora, significa riconciliarsi con Dio e con i fratelli “non a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità” (1 Gv 3, 18). La pace della coscienza, perciò, è un dono che ci viene concesso da Dio perchè “Egli è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1 Gv 3, 20): ciò è una grande certezza perché se stiamo per staccarci dalla vite, Egli solo può reinserirci in essa; se a causa del nostro peccato ci siamo allontanati dall’amore del Padre, Egli solo può perdonarci, purché, noi lo vogliamo.

 

 A questo punto, l’immagine eloquente della vite e dei tralci reca in sé chiari riferimenti pasquali. L’allegoria che ci viene presentata è fondamentale per ciascuno noi che oggi siamo i discepoli di Cristo, ma allo stesso modo è importante anche per la comunità cristiana che si ritrova ad operare nelle realtà parrocchiali. La Parrocchia, infatti, si può considerare certamente a partire dai “tralci”, cioè dai membri che la compongono. Ma tale considerazione che parte “dal basso” non può non trovare il suo completamento più felice con la parte che sta in “alto”, cioè Dio.

 

In altre parole, possiamo capire la nostra realtà ecclesiale quale piccolo “corpo mistico”, partendo da Cristo stesso cioè, dalla “vite”. Ogni comunità cristiana, infatti, sappiamo che non nasce “dal basso”, cioè dalla “carne e dal sangue”, ma “dall’alto”, ossia dalla grazia di Dio e dai Sacramenti. Solo a partire da Cristo la comunità dei credenti ritrova la sua vitalità. I tralci, infatti, senza un legame vitale con la vite, prima o poi muoiono. Il tralcio maggiormente alimentato da Cristo-Vite è Maria. Particolarissimo, infatti, è il loro legame perché anche Maria, dal momento che ha generato “l’Autore della vita” è “vite feconda”, proprio come Gesù. Tra Maria e il Figlio, ci fa cantare la liturgia, avviene un “mirabile commercium”, ossia un meraviglioso scambio, un impareggiabile flusso di vita e di fecondità che sull’umanità irradia all’infinito i suoi meravigliosi effetti di vita, benefici e ristoratori.

 

La Beata Vergine, perciò, è l’esempio più bello di creatura che rimane salda e fissa in Dio e nella quale Dio vuole rimanere per abitare come in un tempio. Maria, quindi, realizza autenticamente più di ogni altro credente la parola di Gesù: “rimanete in me e io in voi” (Gv 15, 4). A lei, che più strettamente è unita a Gesù Risorto, ci affidiamo e assieme a Lei preghiamo perchè rimanendo saldi in Cristo, anche noi possiamo portare molto frutto e contribuire ogni giorno già su questa terra alla costruzione del Regno di Dio.

 

Fra’ Frisina

 

Foto: medee.it 

 

 

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