Natale a Regalpetra

La letteratura italiana è piena di scrittori che hanno dedicato pagine al Natale. Racconti, capitoli di romanzi, poesie… Alcuni hanno parlato di magia, di valori e di riscatto; altri hanno usato l’immaginario natalizio per sottolineare la differenza che c’è — il 25 dicembre come il resto dell’anno — tra il mondo così com’è e il mondo così come dovrebbe essere. Tra questi ultimi c’è sicuramente Leonardo Sciascia, che con Le Parrocchie di Regalpetra fa di un Natale amaro il simbolo di tutte le ingiustizie che inquinano la terra e la storia della sua amata Sicilia .

Dalla classe di Recalmuto alla vita di Regalpetra

La storia editoriale dell’opera ha inizio nel 1954. All’epoca Sciascia era maestro alla scuola elementare di Recalmuto (il paese in provincia di Agrigento in cui è nato). Nell’atto di compilare il registro di classe con una breve descrizione dell’anno scolastico appena concluso decide che quel periodo della sua vita, trascorso insieme a quei cari ragazzini di quinta che seguiva fin da quando erano in seconda, meritava una cronaca più profonda e approfondita. Il racconto viene completato in pochi giorni. Sciascia invia il manoscritto a Calvino, che a sua volta lo passa alla rivista Nuovi Argomenti. Qui comparirà con il titolo Cronache scolastiche.

Dopodiché entra in scena l’editore barese Laterza che, lette le Cronache, propone a Sciascia di scrivere un libro sulla vita di un paese siciliano. Uno qualunque. L’autore sceglie l’immaginario Regalpetra (da Regalmuto, antico nome di Recalmuto, e Fatti di Petra di Nino Savarese), che potrebbe essere ogni paese dell’isola e nessuno in particolare. Con la nuova opera si passa dallo spazio ristretto dell’aula scolastica a quello più grande del paese agricolo. Ma gli scolari ci sono sempre. Ed è proprio attraverso le storie di alcuni di loro che il Natale a Regalpetra diventa il simbolo di uno dei temi privilegiati dell’opera: la «continua sconfitta della ragione» in una storia fatta di soprusi e disuguaglianze.

Un Natale di amarissime cose

«Come al solito, in una paginetta di diario, i ragazzi mi raccontano come hanno passato il giorno di Natale: tutti hanno giuocato a carte, a scopa, sette-e-mezzo e ti vitti (ti ho visto: un giuoco che non consente la minima distrazione), sono andati alla messa di mezzanotte; hanno mangiato il cappone e sono andati al cinematografo. […] Tre ragazzi non hanno però parlato della messa notturna, hanno scritto, senza consapevole amarezza, amarissime cose» scrive l’autore con un tono caldo da cantastorie percorso da una profonda malinconia.

Sono tre storie diverse, accomunate soltanto da una miseria nera e senza riscatto. Il primo ragazzino spende i soldi vinti alle carte per comprare il biglietto del cinema a suo padre. Il terzo si dice contento perché finalmente il giorno di Natale può farsi il bagno, vestirsi bene e magiare il riso con il brodo e il cappone. Ma l’episodio più struggente — e dotato di una più forte carica simbolica — è quello narrato dal secondo ragazzino:«Io il giorno di Natale ho giocato con i miei cugini e i miei compagni. Avevo vinto duecento lire e quando sono ritornato a casa mio padre me le ha prese e se ne è andato a divertirsi lui».

La fede nella scrittura

Sciascia davanti a questo breve ricordo afferma di non aver mai letto niente di più triste nelle cronache spesso desolate dei suoi ragazzi. E aggiunge: «A guardar bene ci sono nell’episodio tutti gli elementi che fanno la tragedia della nostra vita — e almeno della mia vita qui, in questo povero paese. Ed il giorno della grande festa cristiana, che fa da sfondo e condiziona l’episodio, pare diventi, dietro questo bambino che piange nella sua casa oscura, una blasfema parodia». Una parodia perché la festa si consuma in una realtà straniante dove niente coincide con la ragione. Blasfema perché è Natale e un padre che toglie qualcosa al figlio per alimentare i propri vizi è un tradimento al messaggio salvifico portato dal Messia.

Non siamo davanti a una favola in cui l’assenza della ricchezza materiale concede spazi più ampi a quella spirituale. Nessun evento miracoloso trasforma gli ultimi in primi. Anzi, più è nera la miseria più si sprofonda nelle sabbie mobili dell’ingiustizia. E allora quale può essere la soluzione? La scrittura, forse. «Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di aver dato il senso di quanto lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione. La povera gente di questo paese ha una gran fede nella scrittura […] crede che un colpo vibratile ed esatto della penna basti a ristabilire un diritto, a fugare l’ingiustizia e il sopruso».

Il linguaggio della ragione

Sciascia sceglie di condividere almeno un po’ la fiducia nella scrittura della «povera gente», perché in una terra martoriata dai soprusi la parola scritta è l’unico strumento in grado di definire le cose che vanno e quelle che non vanno, di analizzare la realtà in modo lucido e riportarla al linguaggio della ragione.

E se anche Regalpetra non esiste, i salinari, i bambini che vanno a servizio, i vecchi che muoiono di fame, «le persone che lasciano come unico segno del loro passaggio sulla terra […] un’affossatura nella poltrona di un circolo» esistono. E non smettono di esistere nemmeno a Natale, quando tutti dovrebbero essere più buoni e invece, alle luci delle illuminazioni, le ombre quotidiane diventano più nere.

Foto di Dar1930 da Pixabay

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