Morte del Papa: il compimento silenzioso del mistero pasquale

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La morte del Papa non è solo una fine, ma una soglia simbolica. Avvenuta nel tempo sacro che segue la Pasqua, suggella un’esistenza intrecciata alla croce, alla luce e agli ultimi segni di pace lasciati come traccia del divino nel mondo

Il Papa “è tornato alla casa del Signore”

Non tutte le morti accadono nel tempo dell’orologio. Alcune si compiono nel tempo dell’anima, quando ogni gesto ha trovato il suo significato e ogni parola ha adempiuto il proprio compito. Così si è congedato il Papa: non in una data qualsiasi, ma nel tempo interiore della Chiesa, tra Passione e Resurrezione, tra lutto e gloria.

Bergoglio si è lasciato spegnere, come chi ha atteso l’ora giusta per rientrare nell’eterno.

Non serve ripercorrere la sua biografia, né enumerare i gesti del suo pontificato. La sua partenza ci consegna qualcosa di più profondo, più mistico: una lezione sul tempismo spirituale, sul valore della sofferenza condivisa, sulla potenza della parola che precede il silenzio definitivo.

La malattia e la passione del Papa

Era stato ricoverato in febbraio, un preludio silenzioso alla sua ultima salita. Tornato alla luce del giorno, non si è sottratto alla Croce, ma l’ha presa su di sé con la stessa sobrietà che aveva marcato tutto il suo pontificato. Così, mentre il corpo si faceva sempre più fragile, ogni parola detta acquistava il tono di un congedo sacro. Come se l’uomo sapesse che stava percorrendo la sua personale Passione, e desiderasse attraversarla fino in fondo, senza sottrazioni, senza deleghe.

Anche l’incontro con Carlo e Camilla, letto da alcuni in chiave diplomatica, in lui aveva il sapore sacrale del saluto. Il Papa benediva ancora una volta i potenti della terra, non per legittimarli, ma per disarmarli interiormente, offrendo la propria vulnerabilità come monito e custodia.

Infine, nel tempo della Quaresima, ha condiviso il dolore del Cristo. Ha attraversato la Settimana Santa non come spettatore, ma come partecipe del mistero redentivo. E nel giorno di Pasqua ha pronunciato il suo ultimo messaggio: parole semplici, dolci, nitide, in cui si leggeva non la speranza astratta, ma la volontà luminosa di consegnare al mondo una pace incarnata.

Poi, quando la Chiesa aveva appena riempito l’aria del canto del Gloria, il Papa ha scelto il silenzio.

Non una data qualsiasi

Il 21 aprile, tra l’altro, è anche il Natale di Roma. Il giorno in cui, secondo il mito, fu fondata la Città Eterna. È come se il suo vescovo, nella sincronicità tra civiltà e rivelazione, abbia voluto congiungere simbolicamente l’inizio dell’Impero e la fine del proprio ministero, il potere storico e il Vangelo eterno.

Non è stato un esito clinico. È stato un atto dell’anima.

Ha voluto restare abbastanza da accompagnare la Chiesa fino alla soglia della Luce, e poi lasciarla camminare da sola. La sua morte è apparsa come una parabola vissuta fino all’ultimo versetto. Una vita lasciata in eredità non attraverso la narrazione del sé, ma nel compimento silenzioso di una promessa più grande. Nel cuore del tempo pasquale, la sua morte, dunque, non è stata interruzione, ma sigillo. Una pagina non strappata, ma posata. E noi, alla fine, ci accorgiamo che non se n’è andato: ha semplicemente completato la sua ultima omelia.

Chi ha orecchi per intendere, intenda (Mt 11,15)

Non è un ammonimento. È un invito sacro. È il modo con cui Cristo, dopo aver detto parole misteriose, lascia che sia l’ascoltatore a decifrare, a entrare nel non detto, a lasciarsi interrogare.

Sta ora a noi non solo ricordarlo, ma intendere. Intendere il momento, la scelta del silenzio. Intendere che la pace non si proclama, si vive. Questa morte, nel tempo pasquale, non grida. Non si impone. E così, mentre le campane hanno smesso di suonare e le notizie si rincorrono, resta un vuoto che non è assenza, ma compimento. Un’ultima liturgia che non è stata recitata, ma vissuta. Una morte che non interrompe ma che sigilla.

Fonte foto: vaticannews.va

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