Ogni tanto nella nostra società abbiamo termini ed ambiti che vengono nominati più spesso e diventano quasi una moda per le persone. Da tempo è la bioetica l’ambito più nominato con le sue numerose sfaccettature e posizioni. E, sempre in questo ambito, ultimamente si sta molto parlando di “eutanasia”. Ognuno ne da una propria definizione e interpretazione. Come fino al Referendum sulla Legge 40/2004, ed anche oltre, pareva fosse un diritto acquisito quello di avere un figlio ed averlo “per forza ed a tutti i costi”, adesso sembra che l’attenzione si sia spostata sul termine della vita umana, soprattutto quando si parla di malattie gravi e terminali che portano già con sé un bagaglio non indifferente di sofferenza fisica e psicologica. Sull’etimologia del termine non è il caso di soffermarsi: ormai la conoscono tutti. Bensì è importante cercare di vedere il motivo che c’è dietro a questa richiesta di “eutanasia” da parte delle persone. Ciò che sconvolge è la richiesta di lasciare che si possa interrompere la propria esistenza perché si è stanchi di soffrire per una determinata malattia. E’ vero, il dolore per una malattia terminale è forte e, soprattutto lo diventa ancora di più se quest’arco terminale dell’esistenza viene vissuto nella solitudine, nell’abbandono e nel sentirsi come “un peso” per le persone che ci sono accanto. Una volta un’infermiera di un reparto di malati terminali ha raccontato di non aver mai udito uno di questi pazienti chiedere di morire. Una notte le è successa una cosa particolare che le ha fatto comprendere come si senta un malato in quelle condizioni e di cosa effettivamente abbia bisogno. Ebbene un malato prima la chiama per chiederle di aprire un po’ la finestra, successivamente la chiama per chiederle un bicchiere d’acqua, poi la chiama per chiederle di essere spostato nel letto da una posizione ad un’altra, e poi….così alla fine l’infermiera comprende che il paziente aveva bisogno non proprio di una finestra più aperta, di un bicchiere d’acqua o di una posizione diversa in quel letto d’ospedale. Il paziente aveva bisogno di non sentirsi solo perché aveva paura e così si è seduta accanto a quel letto e lo ha fatto parlare e lo ha ascoltato per tutta la notte. La preoccupazione del malato non era la sua prossima morte, ma il dolore per le persone che lo vedevano soffrire, il dolore perché non voleva sentirsi di peso ai suoi familiari, la sofferenza nel vedere le lacrime sui volti delle persone a lui più care.Il dolore era per gli altri e non per se stesso! E allora chi vuole veramente l’eutanasia? La vuole veramente l’ammalato oppure è un sistema consumistico che, non potendo più “ricavare nulla” dal malato terminale, preferisce farlo sentire talmente inutile e di peso da pensare che sia meglio sopprimerlo? E’ la mancanza di ascolto, di comprensione, di condivisione del dolore e della sofferenza dell’altro, che può portare alla sofferenza ancora più grande di “chiedere” di morire: ma si sta veramente desiderando ciò che si chiede? No, assolutamente no! E lo confermano coloro che in determinati reparti ospedalieri ci lavorano da anni: un malato terminale non chiede l’eutanasia, non chiede la morte, chiede invece la comprensione e l’amore dei suoi cari, di chi gli sta attorno, affinché possa essere aiutato ad affrontare quell’inevitabile momento da questa vita ad un’Altra Vita!
Adele Caramico
Foto: www.iltaccoditalia.info
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