L’angelo nella bufera

A proposito di imprevisti, cosa c’è di più inaspettato di un amore che arriva nel momento sbagliato? Il poeta Eugenio Montale lo scopre nell’estate del 1933, quando incontra l’accademica americana Irma Brandeis. Sullo sfondo c’è Firenze, la città del giglio rosso dove «brillava la pescaia tra gli stacci/dei renaioli, a tuffo s’inforravano/ lucide talpe nelle canne, torri/gonfaloni vincevano la pioggia». Montale si trova nel capoluogo toscano perché è stato nominato direttore del Gabinetto di Vieusseux. Una carica prestigiosa che perde pochi anni dopo perché non iscritto al Partito Fascista.

Partire o restare?

Il 4 agosto 1938 scrive a Bazlen: «Come saprai (ma conserva il segreto!) ho il 90% delle probabilità di andar via di qui [dal Gabinetto di Vieusseux] entro il mese di settembre. Questo fatto, unito a certi recenti provvedimenti razzistici che sai e che seguiranno, mi ha fatto sentire come necessario di riunirmi coûte con chi supponi […] Non ti spaventare, non chiedo risposta a queste domande. Ma vorrei da te un’opinione sintetica. Che altra via d’uscita ho, tra il colpo di rivoltella e il… piroscafo?». Il piroscafo serve per attraversare l’Oceano Atlantico e raggiungere la sua Irma, che in quanto ebrea non può più tornare in Italia. Il progetto di partire c’è, la forza per andarsene no. 

Per andare a New York dovrebbe lasciare Drusilla Tanzi, fragile scrittrice a cui è legato sentimentalmente dalla fine degli anni Venti. L’abbandono potrebbe spingere la donna a uccidersi. Questo timore fa sì che i contatti tra Montale e la Brandeis non sopravvivano al 1939. Stando alle lettere raccolte nell’epistolario Lettere a Clizia (edito per la prima volta 2006), le minacce di suicidio da parte della Tanzi cominciano già anni addietro.

Un amore dolente

In una lettera datata 21 febbraio 1935, Irma scrive: «Ecco la situazione:una donna isterica minaccia di uccidersi e in questo modo tiene in scacco la vita di due persone. Una di queste decide di accettare la situazione, l’ altra, non ha scelta. A quest’altra può succedere qualunque cosa: sarà sopportabile, purché lei non minacci di uccidersi. Purtroppo io ti amo, ogni cosa che fai per farti male la fai anche a me. Non posso sopportare questa nostra vita dolente e poco eroica, ridicola quasi, ma vedo che ormai è troppo tardi per porvi rimedio». 

Irma parla di una «vita dolente e poco eroica» riferendosi all’amore impossibile che la lega al poeta. Montale condivide il suo abbattimento, ma da questo amore sfortunato tira fuori una parabola di pathos e di sacrificio che prende vita tra le pagine della sua terza raccolta poetica.

La bufera

La Bufera e altro esce nel 1956, ma la genesi della prima sezione — Finisterre — comincia nel 1941. Siamo in pieno periodo bellico, una crudeltà irrazionale minaccia di travolgere la società e i suoi valori morali. Siamo davanti alla bufera che dà il titolo all’intera raccolta: un furore «che sgronda sulle foglie/ dure della magnolia, i lunghi tuoni/ marzolini e la grandine/ […] il lampo che candisce/ alberi e muri e li sorprende in quella/eternità d’istante». La bufera non simboleggia solo la Seconda Guerra mondiale, è metafora del male cosmico che porta devastazione in ogni luogo e in ogni tempo. Una forza enorme che può essere contrastata solo da un’energia benefica altrettanto potente: Clizia, l’eletta salvatrice del mondo.

La parabola di Clizia

Clizia è Irma Brandeis nella sua versione più sublime. Si presenta come una donna che ha dovuto rinunciare alla sua natura umana per trasfigurarsi in un’entità superiore, pronta a donarsi per la salvezza dell’intera umanità. Anche a lei come a Irma, cause dei forza maggiore impediscono di vivere l’amore terreno con il poeta. Nella prima poesia dell’opera —  La bufera, appunto —  i versi montaliani la colgono nel momento dell’addio: «ti rivolgesti e con la mano, sgombera/ la fronte dalla nube dei capelli,/ mi salutasti – per entrar nel buio».

Come quello di Gesù Cristo, l’iter di trasfigurazione di Clizia comincia con una discesa agli inferi. Da questo momento la donna-angelo comparirà quasi sempre in absentia, sotto forma di ricordo, sogno o visione. In Gli orecchini il poeta la vede nel pallido riflesso di uno specchio mentre le mani bianche dei morti le applicano dei coralli ai lobi, investendola della missione messianica. In Il giglio rosso la rievoca in un ricordo che già porta in sé i segni premonitori della morte. Finché Clizia non risorge il mondo sembra sprofondare nell’oblio. Basta pensare a immagini inquietanti come «le tarme che sfarinano nei libri» di Finestra Fiesolana, la «giga crudele» di Nel sonno, la «fucina vermiglia della notte» di Su una lettera non scritta… 

Resurrezione

Il momento della resurrezione arriva nel settimo componimento: La frangia dei capelli. Clizia si manifesta all’alba, l’ora dei sogni rivelatori. La presenza della frangia suggerisce che siamo ancora di fronte alla stessa donna che, dopo aver sgomberato la fronte dalla nube dei capelli, si è addentrata nel buio. Ma d’altra parte è come se fosse un’altra. Alata, scende dal cielo d’un balzo e invade tutto il campo visivo sotto forma di luce accecante. È l’epifania del visiting angel, un’apparizione totalizzante che lascia presumere la vittoria della ratio sul male irrazionale che ha reso gli uomini dei «nati-morti».

Si prospetta uno scenario apocalittico in cui tutti possono agognare a salvarsi, ma il poeta non potrà più sperare di vivere con l’amata. Ormai sono irrimediabilmente su due piani diversi: lei è «Iddia che non s’incarna», lui uomo in carne e ossa che può solo farsi partecipe di un Amore con la “A” maiuscola che abbraccia l’umanità. Una consolazione parziale per una storia che continua a essere impossibile anche sulle pagine di carta.

Fonte foto: deviantart.com

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