La Quinta stagione

la quinta stagione

L’autunno astronomico è iniziato il 23 settembre eppure non abbiamo la percezione di essere entrati nella stagione autunnale visto che le giornate sono solo un po’ più brevi e siamo ancora, e lo saremo fino al 29 ottobre, con l’orologio sull’ora legale mentre il nostro abbigliamento è ancora, in gran parte, quello estivo.

Nella stessa via capita allora d’imbattersi negli ostinati dell’estate, che ancora circolano con le maniche corte, e con i freddolosi che già indossano i panni pesanti e ognuno, a modo suo, ha ragione.

È la «Quinta stagione», quella che s’incunea tra la fine dell’estate e la Festa di San Martino dell’11 novembre in cui, secondo la tradizione, «ogni mosto diventa vino».

La «Quinta stagione» nella tradizione popolare

Dalla Festa del Törggelen delle regioni alpine alle ottobrate romane, del centro e del sud, la «Quinta stagione» è stata sempre puntellata di feste, sagre e occasioni popolari di svago.

Prima di rinchiudersi in casa al riparo dal freddo e dalla pioggia, in epoche in cui gli eventi metereologici condizionavano i ritmi della vita quotidiana, le persone comuni si concedevano gli ultimi svaghi all’aria aperta ed era tutto un trionfo di occasioni laiche di festa che a Roma in particolare si esprimevano, e lo saranno sino ai primissimi anni del ‘900, nelle ottobrate appunto.

Sporadiche sortite fuori porta, in una città ancora intatta in cui la sua parte urbanizzata si limitava alla cinta muraria, nei giorni di giovedì, in cui secondo tradizione si dava la giornata libera alla servitù, e di domenica subito dopo l’immancabile messa.

Non era necessario andare troppo lontano: Testaccio, Ponte Milvio, Porta Pia, San Giovanni, Monteverde subito dopo Porta San Pancrazio offrivano vigne, campi in cui ballare il salterello (la tipica danza popolare dell’epoca) e ovviamente osterie e trattorie di campagna.

Se per i romani contemporanei quell’atmosfera spensierata si lega indissolubilmente alle colline vulcaniche della zona di Albano, a sud-est della città, battezzate come i Castelli, lo si deve alla fomosissima canzone di Franco Silvestri, portata al successo da Ettore Petrolini, «‘Na gita a li Castelli», ma si era già alla metà degli anni ’20 in cui il sacco di Roma, la sua trasformazione da piccolo borgo pontificio in Capitale d’Italia con l’abbattimento delle ville storiche per fare posto ai quartieri signorili, era già compiuto e la città storica aveva già assunto, con la costruzione dei muraglioni alle sponde del Tevere ed i palazzi in stile umbertino, la sua forma attuale.

Gli sventramenti fascisti prima, con la costruzione delle borgate, e la speculazione dei palazzinari poi dei primi anni ’50 faranno il resto spostando di parecchi chilometri la campagna romana e le vigne.

Prima di allora per una gita fuori porta bastava farsi una salutare passeggiata a piedi al seguito delle «carettelle», piccole carrozze trainate da due cavalli sulle quali prendevano posto le ragazze vestite a festa.

Occasioni di svago che non coinvolgevano però solo il popolo minuto e gl’immancabili «minenti» e «minente», versione maschile e femminile degli arricchiti dell’epoca narrati dai sonetti del Belli, ma anche la piccola e grande nobiltà pontificia con quel suo vezzo al travestimento in abiti popolari che verrà celebrato da Monicelli ne «Il Marchese del Grillo» interpretato da Alberto Sordi.

I nobili raggiungevano i luoghi di festa, ed in particolare le grotte di Testaccio scavate sotto al Monte dei Cocci, a bordo delle loro carrozze e si mischiavano volentieri alle persone comuni nelle danze, nella morra e nei corteggiamenti.

Quello che accadeva al ritorno, con i vetturini che non si erano risparmiati nelle gare a chi reggeva di più il vino, ce lo racconta Giggi Zanazzo: «la sera s’aritornava a Roma ar sôno de le tamburelle, dde le gnàcchere e dde li canti… E ttanto se faceva a curre tra carozze e ccarettelle che succedeveno sempre disgrazzie».

Ospiti e viaggiatori stranieri non si privavano certo di queste occasioni di svago e si narra che persino Giacomo Casanova sia stato coinvolto in una gita fuori porta dell’ottobrata romana, salvo lamentarsi perché la brevità del tragitto in carrozza gli aveva impedito di dar sfoggio delle sue indubbie doti di seduttore.

La «Quinta stagione» nella poesia e nelle arti figurative

L’ambiguità della «Quinta stagione», questo non essere più estate, ma ancora non autunno ha solleticato l’estro di poeti e pittori.

Nei primi ha prevalso la «melanconia», un sentimento d’immotivata tristezza generato dalla fine della bella stagione.

Ecco allora «Mattini d’ottobre» di Vincenzo Cardarelli («Di giorno in giorno il sole si fa sempre più pallido. E’ un pallore che fiacca i nervi e l’anima rattrista: un’agonia di luce che si spegne un singhiozzo che muore») e «Sera d’ottobre» di Giovanni Pascoli («Venne la sera ed abbuiò le strade. Stridule, qua e là, di più colori, correan le foglie; non s’udia per gli ampi filari che il vocio degli aratori. E tutta la semente era nei campi. Or le vacche tornavano alle stalle: e la gente, ciarlando per la via, saliva coi marrelli sulle spalle. Sono, di qua di là, l’Avemaria. Ora il fuoco accendeva ogni capanna e i bimbi sazi ricevea la cuna, col sussurrare della ninna nanna.»).

Ada Negri, invece, in «Sole d’Ottobre» si è lasciata sedurre, come lo saranno i pittori di ogni epoca, dalla particolare luce ottobrina: «È così pura questa gioia fatta di luce e d’aria: questa serenità ch’è d’ogni cosa intorno a te, d’ogni pensiero entro di te: quest’armonia dell’anima col punto del tempo e con l’amore che il tempo guida. Non più grano, né frutti ha ormai la terra da offrire. Sta limpido l’Autunno sul riposo dell’anno… Il fisso azzurro, immemore di tuoni e lampi, stende il suo gran velo di pace sulle rosseggianti chiome delle foreste. Quand’è falciata la spiga, spoglia la pannocchia, rosso il vin nei tini, e le dorate noci chiaman l’abbacchio, e fuor del riccio scoppia la castagna, che importa la minaccia dell’Inverno, alla terra?.. Trasparente luce d’ottobre, al cui tepor nulla matura perché già tutto maturò: chiarezza che della terra fa cosa di cielo.».

Trasparente luce d’ottobre

«Trasparente luce d’ottobre» l’ha definita magistralmente Ada Negri la luce della «Quinta stagione», stimolo irresistibile per i pittori di ogni epoca: da Monet a Dalì, passando per Kandinsky e Klimt, mentre i nostri, Pinelli su tutti, si lasciavano sedurre dalle feste popolari e dai costumi sgargianti ed eccentrici dei partecipanti.

Una stagione in cui nelle belle giornate, che ancora prevalgono su quelle piovose, la luce crepuscolare, così diversa da quella prepotente dell’estate, sembra durare più a lungo.

La «Quinta stagione» in cucina

Se negli altri periodi dell’anno la cucina è schiava della stagionalità nella «Quinta stagione» l’estro prende il sopravvento e sono ammesse le contaminazioni, gli abbinamenti più azzardati complice, appunto, la produzione agropastorale di questo particolare periodo.

Negli orti le piante di pomodoro vanno sradicate per far posto alle coltivazioni autunnali e poi invernali e gli ultimi pomodori, ancora verdi e che non avranno modo di maturare, si trasformano in salse e confetture, mentre con la parte immatura delle zucchine e con i loro germogli si prepara l’infinita schiera dei risotti, delle frittate e delle pizze ripiene.

Le melanzane resistono per tutta la «Quinta stagione» e s’incontrano con i frutti autunnali e così persino la marmellata per Purim della tradizione ebraica, fatta di melanzane, noci e succo d’arancia, ha la sua logica ed il suo senso.

Le prime piogge fanno spuntare i funghi che si uniscono agli ultimi ortaggi estivi in combinazioni impossibili in altri periodi dell’anno.

Fanno la loro comparsa le zucche, che si prenderanno tutta la scena nella festa, ormai cosmopolita, di Halloween, ma che ora s’impiegano negli gnocchi con i condimenti meno consueti.

Tra i frutti, in infinite preparazioni dolci, salate o dolci e salate, spiccano le pere autunnali, su tutte la succosa Decana da molti ritenuta la regina delle pere, e la Melagrana che in questo periodo dà il meglio di sé.

Le botti dei vini che non sopportano l’invecchiamento devono essere svuotate per far posto al vino nuovo che arriverà alla metà di Novembre e questo giustifica questo profluvio di sagre vinicole a prezzi popolari dei vini di minor pregio, ma che possono riservare gradevoli sorprese.

Il vino impone pasti sostanziosi, impensabili solo un mese prima, e con le prime sere più fresche riappaiono le polente mentre le giornate sono ancora abbastanza lunghe e asciutte da permettere gli ultimi barbecue complice anche la maggior disponibilità di carne d’agnello che si registra proprio in questo particolare periodo.

Capita allora, senza contraddizione, di mangiare a pranzo, in cui la temperatura sfiora ancora di trenta gradi, una pietanza estiva come una parmigiana di melanzane o un’insalata e di trascorrere una cena importante davanti ad un piatto di specialità sudtirolesi come i canederli o i ravioli.

Dopo la forzata pausa estiva tornano sulle tavole i formaggi: Brie de Meaux, Crottin de Chavignol, Cantal, Epoisses, Laguiole, Livarot, Fourme de Montbrison, Reblochon, Roquefort, St.Nectaire, Tomme de Brebis des Pyrenées, Gouda, Munster, Valtellina Casera, Raschera, Toma Piemontese, Il Fassano, Fontina d’Alpeggio, Talè, Piacentinu, Caciocavallo di grotta, Vezzena che, a loro volta, chiamano vino.

Per concludere un pasto, ora che la stagione dei gelati ci sembra già lontanissima, niente di meglio che uno strudel o, con le ultime pesche tardive, le «persi pien» della tradizione monferrina, con la polpa delle pesche bianche, gli amaretti, il cacao amaro e l’immancabile aroma di Rum.

La «Quinta stagione» ed il passaggio del testimone dall’olio extravergine d’oliva al vino

La «Quinta stagione», complici il cambiamento climatico ed una maggiore sensibilità per la produzione più rispettosa delle sue caratteristiche organolettiche, è anche, se non soprattutto, la stagione dell’olio nuovo (e non chiamatelo «novello» che è solo un richiamo commerciale).

I frantoi più moderni sono in piena attività anche se per colpa di una politica miope anche quest’anno si registrerà una sostanziosa diminuzione della produzione di olio extravergine di qualità.

Il nostro oro verde è pronto a saturare i nostri sensi con i suoi profumi fruttati, l’amaro, il piccante e le infinite combinazioni in cucina che è in grado di regalare, a chi sa apprezzarlo, un miracolo della Natura e del lavoro umano che si ripete ogni anno,.

Chi ha ancora scorte dell’olio extravergine dell’anno passato si può sbizzarrire nelle fritture autunnali in olio extravergine che, tra gli oli di frittura, non ha paragoni.

Tanto per la «prova costume» se ne parla l’anno prossimo.

Foto di StockSnap da Pixabay

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