La melanzana: la Regina della tavola estiva del Sud

Che sia alla griglia o golosamente fritta, che si ritrovi nella ricca caponata siciliana o trabocchi di
salsa nella parmigiana l’arrivo sulle nostre tavole della melanzana segna l’inizio gastronomico della
stagione estiva.

La sua resistenza ne consente la coltivazione in tutte le aree temperate del bacino del Mediterraneo
ed i percorsi commerciali portano ai mercati le sue varietà più diffuse: Bianca; Perlina; Lunga;
Violetta: di Firenze, di Palermo, Bella Vittoria, Lunga di Napoli, Seta, Tonda; Nera: Sciacchitana,
Tonda; Ovale di Palermo; Zebrina Viola, Prosperosa.

La sua appartenenza alle solanaceae ne impedisce il consumo a crudo e questo è probabilmente il
vero motivo della sua cattiva fama nei tempi più antichi: persino gli Arabi, che pure ne diffusero la
coltivazione nel bacino del Mediterraneo, ne sconsigliavano l’abuso visto che, sia pure in quantità
minori rispetto al tabacco, contiene tra l’altro nicotina.

Dalla Cina alle nostre tavole passando per l’India e la Persia

Considerata la sua popolarità nella cucina tradizionale, specie d’impronta meridionale, napoletana e
siciliana in particolare, si fa fatica a credere che anche la melanzana abbia incontrato difficoltà
nell’imporsi nella cucina italiana, eppure è esattamente ciò che è accaduto.

Originaria probabilmente della Cina, che assieme all’India ne è oggi il maggiore produttore
mondiale, la melanzana, che solo recentemente ha assunto questo nome (uno dei primi testi a
chiamarla così è Il Re dei Cuochi, Ovvero la maniera di fare una buona cucina con poca spesa, edito
a Firenze da Salani nel 1874) in Italia ha vissuto a lungo dal punto di vista culinario una vita
sommersa: popolarissima tra le classi meno abbienti e sostanzialmente rifiutata dalla cucina
ufficiale.

Sarà infatti solo Pellegrino Artusi, con la prima edizione del 1891 del suo «La scienza in cucina e
l’arte di mangiar bene», a sdoganarla definitivamente anche a beneficio della borghesia e della
piccola nobiltà liberandola dai pregiudizi che in quei ceti ne condizionavano il consumo.

Ma andiamo con ordine.

La melanzana giunge in Europa con la dominazione araba, e quindi relativamente tardi per un
ortaggio indoeuropeo, con due diversi percorsi cultural-gastronomici: quello arabo appunto e quello
della diaspora ebraica.

Della coltivazione delle melanzane, che in lingua araba sono denominate bādingiān (da cui
derivano le varie denominazioni europee compresa quella franco-inglese di aubergines), tratta nel
XII secolo Ibn al-Awwam, nel suo Kitāb al-filāḥa, probabilmente il più completo testo di
agricoltura araba.

In parallelo viene scoperta (o forse riscoperta) dalla cucina della diaspora ebraica che ne fa uno dei
piatti preferiti per lo Shabbat visto che le melanzane si possono preparare con anticipo e consumare
fredde.

Come per i carciofi, la presenza di ricette di melanzane «alla giudia» dimostra la migrazione di
quest’ortaggio dalla cucina ebraica a quella cristiana e la sua diffusione nelle classi popolari, le più
sensibili all’uso di un alimento a basso costo e grande resa culinaria.

E «cibo da Ebrei» è il dispregiativo che nelle classi colte la melanzana si porta dietro per alcuni
secoli.

È noto, del resto, che a causa delle periodiche restrizioni a cui venivano sottoposte le diverse
comunità ebraiche europee, le stesse erano costrette a fare di necessità virtù e ad esaltare, spesso
con risultati culinari eccellenti, cibi poveri, poverissimi o comuque scartati dai loro omologhi
cristiani.

Scrive Vincenzo Corrado (Il Cuoco galante, Napoli, 1773): «Li petronciane [uno dei tanti nomi
popolari delle melanzane ndr] sono di tre colori, cioè bianchi, gialli, e pavonazzi. Ne fanno
grand’uso gli Ebrei, ed è cibo loro costumatissimo».

A sua volta l’Artusi, che ne assume il nome toscano di Petonciani, chiosa nel presentare una serie di ricette che li contengono: «Il petonciano o melanzana è un ortaggio da non disprezzarsi per la
ragione che non è né ventoso, né indigesto. Si presta molto bene ai contorni ed anche mangiato solo,
come piatto d’erbaggi, è tutt’altro che sgradevole, specialmente in quei paesi dove il suo gusto
amarognolo non riesce troppo sensibile. Sono da preferirsi i petonciani piccoli e di mezzana
grandezza, nel timore che i grossi non siano amari per troppa maturazione. Petonciani e finocchi,
quarant’anni or sono, si vedevano appena sul mercato di Firenze; vi erano tenuti a vile come cibo da
ebrei, i quali dimostrerebbero in questo, come in altre cose di maggior rilievo, che hanno sempre
avuto buon naso più de’ cristiani.».

Un riconoscimento vero e proprio che decreterà l’ingresso della melanzana nella cucina italiana di
ogni ceto e di ogni latitudine.

Eppure ancora nel 1880, Il Re dei Cuochi (che per giustificarne e nobilitarne l’uso ne riporta la
denominazione francese), afferma: «Le melanzane o petronciani sono un ortaggio alquanto insipido
e pochissimo nutriente. Ve ne sono di bianche e violacee; quest’ultime sono reputate le migliori».
(Il Re dei Cuochi Trattato di Gastronomia Universale, Milano, Legros Editori, 1880)

La doppia paternità ebraico-araba delle melanzane unita, come detto, ad indubbi effetti negativi del
suo consumo a crudo, spingono la superstizione che la melanzana sia un cibo non solo indigesto e
fonte di flautolenze, ma che addirittura provochi la pazzia.

Stranamente, e diversamente da quanto accaduto per patate e pomodori (altre solanaceae
inizialmente ostaggiate) non sono le classi popolari a subire il fascino del pregiudizio, ma quelle
alfabetizzate sensibili alle proprietà intrinseche dei cibi, attente ai loro veri o presunti effetti sulla
salute e che nel tempo stanno costruendo, su basi scientifiche quantomeno approssimative, quella
vera e propria «fisiologia del gusto» all’europea che alla metà dell’800 troverà in Brillat-Savarin il
suo massimo esponente.

Non è una voce popolare ad affermare la nocività per la psiche di questo alimento, ma sono i testi in
volgare ed i trattati di botanica. Tutti, ovviamente, senza alcun reale riscontro.

Ecco allora che nel Novellino, una raccolta di novelle in volgare di autore anonimo diffusa nel XIII
secolo, si rinviene questo singolare racconto: «Qui conta del maestro Taddeo di Bologna
Maestro Taddeo, leggendo a’ suoi scolari in medicina, trovò che, chi continuo mangiasse nove dì di
petronciani, che diverebbe matto; e provavalo secondo fisica.
Un suo scolaro, udendo quel capitolo, propuosesi di volerlo provare: prese a mangiare de’
petronciani, et in capo de’ nove dì venne dinanzi al maestro e disse:
«Maestro, il cotale capitolo che leggeste non è vero, però ch’io l’hoe provato, e non sono matto»:
e pure alzasi e mostrolli il culo.
«Iscrivete» disse il maestro «che provato è; e facciasene nuova chiosa».» (Anonimo XIII secolo,
Novellino, XXXV, in Biblioteca Italiana).

Analogo attributo di «cibo per matti» è conferito ai petonciani dal Pataffio, un poemetto del ‘300 a
lungo attribuito a Brunetto Latini ed ora con maggiore attendibilità al suo quasi contemporaneo
Franco Sacchetti.

La cattiva fama della melanzana si diffonde con relativa facilità ed attraversa nei secoli la cucina
ufficiale, quella che si alimenta dei ricettari e dei testi degli scalchi e dei cuochi borghesi, sospinta
da una vera e propria paretimologia secondo cui il termine melanzana deriverebbe da «malum
insanum» così che un botanico inglese, John Tradescant il giovane, classifica nel 1656 la pianta
come «Malum insanum fructu purpureo».

E milinsana è il nome scelto (in luogo del dialettale mulignana) dal cuoco partenopeo Ippolito
Cavalcanti (Cucina Teorico-Pratica, Napoli, 1839) che riporta una delle prime ricette dalle
melanzane alla parmigiana.
«Milinsane farsite alla Parmeggiana. – Scorzerai le milinsane, le fetterai, e poscia le porrai in sale
sotto di un peso, per farne scaturire tutto 1′ amaro, dopo le laverai e le premerai , e quindi le
friggerai, cioè, da una parte sola, e nella parte cotta ci farai una farsa, ovvero un serpicco, finissimo
perchè chiudano bene due fette insieme , e poi farai friggere le altre due mettà; le accomoderai in
una tortiera con parmeggiano grattugiato, e brodo di sostanza, e le farai incorporare al forno».

Le melanzane nella cucina mediterranea

Se in Italia la melanzana è stata a lungo rifiutata dalla cucina ufficiale – che è poi quella che scrive
la Storia della cucina rendendone tanto difficile la ricostruzione in una chiave diversa da quella
antropologica (v. Annalisa Di Nuzzo, Le fonti antropologiche per lo studio delle paste alimentari nel
distretto di Castellammare di Stabia-Gragnano-Torre Annunziata, Milano, 2017) – negli altri Paesi
del bacino del Mediterraneo le cose sono andate un po’ meglio.

La prima immagine che viene alla mente è la Ratatuille al forno alla provenzale: il piatto il cui
assaggio fa cadere letteralmente la penna al severissimo critico gastronomico Anton Ego nel
popolarissimo film d’animazione della Pixar, ma in generale le aubergines, il nome francese delle
melanzane, hanno ricevuto nella cucina francese ufficiale una migliore accoglienza rispetto alla
nostra.

Nel suo ponderoso trattato di cucina (Ma cuisine, 1934) Auguste Escoffier offre un interessante
spaccato di utilizzo di questo ingrediente di origine dichiaratamente popolare e che, come del resto
accade più o meno nello stesso periodo anche in Italia grazie all’Artusi e ad Ada Boni, viene
nobilitato dall’Alta Cucina.

Nella cultura culinaria transalpina le aubergines sono particolarmente radicate in Provenza, anche
grazie alle condizioni climatiche, e provenzale, oltre alla Ratatuille, è l’originale «Caviar
d’aubergine», una salsa di condimento tipicamente estiva che nel gusto fa il verso alle uova di
Storione.

In Spagna, dove gli Arabi le coltivarono per prime forse già dal VII secolo, sono diffuse
principalmente nella cucina andalusa ed in quella catalana, con originali abbinamenti al miele, con
la frutta secca e le mele, anche se la loro preparazione più diffusa è quella nelle «Berenjenas
Rellenas», le melanzane spaccate a metà per la lunghezza, svuotate dei semi e di parte della polpa e
farcite in diversi modi, con carne o vegetali.

Dalla Spagna, in cui incontrano il gusto anche delle classi colte, vengono trasportate in America
Latina: Gabriel Garcia Marquez, nel suo «L’amore ai tempi del colera», ne tratta a lungo come
pietanza addirittura ossessiva.

Dalla cucina greca deriva la Muossaka, il complesso timballo recepito anche dal testo di Escoffier,
mentre nella cucina turca sono particolarmente apprezzate ripiene sia con carne e formaggio sia con
spezie e vegetali.

Uno dei piatti di melanzane turchi dalla denominazione più curiosa è l’Imam Bayildi, letteralmente
l’Imam Svenuto, ed è controverso se lo «svenimento» sia dovuto al profumo inebriante della
pietanza oppure all’enorme quantità di olio extravergine d’oliva necessaria alla preparazione e tale
da mandare in rovina il povero Imam.

Un altro modo turco di preparare le melanzane ripiene, stavolta con carne, è Karnıyarık il cui nome
richiama lo sventramento a cui è sottoposta la povera melanzana.
Denominazioni che possiamo giustamente considerare buffe, ma che attestano il carattere
intimamente popolare di quest’ortaggio.

La melanzana nel terzo millennio

Venuto meno il pregiudizio, il consumo della melanzana è letteralmente dilagato anche grazie alla
diffusione dei ricettari popolari ed all’aspetto invitante delle diverse preparazioni.

Dalle scacce ragusane (o scacciate catanesi) ripiene di melanzane fritte farcite con formaggio e
pomodoro, alle melanzane spagnole al miele o ripiene di mele e frutta secca, sino alla marmellata
di melanzane per la festa du Purim della tradizione ebraica, passando per la pasta alla Norma con
le melanzane fritte, la caponata, la parmigiana, la Moussaka e le varie forme ripiene diffuse in tutto
il Mediterraneo ed il Medio Oriente, la melanzana è in grado di riempire un intero menù,
dall’antipasto al dolce.

Niente male davvero per un cibo a lungo osteggiato e oltraggiato dalle cosiddette classi colte quanto amato dai ceti popolari e che ha trovato infine un insolito quanto divertente riconoscimento in
«Raksit Leila» del gruppo indie rock libanese Mashrou’ Leila che sulla melanzana hanno incentrato
persino un videoclip catapultando questo ortaggio nel terzo millennio.

In fondo aveva ragione Gusteau, lo Chef-nume tutelare di Ratatuille: il cibo trova sempre coloro che amano cucinare!

Foto di Larisa Koshkina da Pixabay

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