La favola dell’acqua raccontata ai bambini senza il “c’era una volta”

donneacqua3069327644_fbf9db0dc1_zA quest’ora della sera, in uno dei nostri bagni, l’acqua sta scorrendo nella vasca ed il bagnoschiuma ha già iniziato a fare tante belle bollicine. Una ragazza si sta lavando i denti ed il rubinetto è già aperto da cinque minuti – ma quanti denti ha la nostra amica? – . In cucina la mamma, tornata in auto dal supermercato, sta mettendo a posto la spesa nella dispensa. “Per fortuna non ho dimenticato l’acqua minerale – pensa tra sé – altrimenti mio marito e mio figlio non bevono, e l’acqua invece fa bene. Almeno 1 litro e mezzo al giorno!”.

Spostiamoci per un attimo in una delle tante capanne dell’Etiopia, della Somalia o della Tanzania. In una in particolare di queste capanne, una donna va a dormire proprio ora, per noi sarebbe impensabile, troppo presto. Domani si alzerà all’alba con un pensiero angosciante: serve l’acqua. Serve acqua per cuocere il poco cibo che c’è. Serve acqua per dar da bere ai bambini. Serve acqua per lavare i suoi stracci. Ma l’acqua non c’è. E allora, come ogni giorno, prende con sé un secchio e si mette in viaggio. La strada è lunga chilometri. Lei  quel secchio lo riporterà alla capanna che chiama casa, tenendolo forse sulla testa.

Fra vent’anni la popolazione mondiale crescerà di due miliardi. L’acqua sarà senz’altro insufficiente. Basti pensare che già oggi un milione di italiani ne consuma quanto 80 milioni di indiani. Il problema non sta tanto, e solo, nella crescita demografica, quanto nello stile di vita che si conduce. Gli occidentali consumano l’88% delle risorse idriche mondiali per l’agricoltura, il cibo, l’igiene, ma anche per l’industria. Per i 3000 pezzi necessari alla costruzione di un’auto servono 400 mila litri di acqua. Un miliardo e 400 milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile e negli ultimi 50 anni la disponibilità di acqua è diminuita di 3/4 in Africa e di 2/3 in Asia.

Non è un mistero che per l’Africa l’accesso all’acqua sia ancora molto lontano da livelli quantomeno accettabili. Nei villaggi solo il 40% della popolazione dispone di acqua potabile ed appena il 20% usufruisce di servizi igienici. Secondo le stime dell’OMS, nel mondo muoiono 10 milioni di persone ogni anno. La metà è rappresentata da bambini, malati di colera, tifo, dissenteria e altre patologie legate alla mancanza di acqua potabile e al consumo di acqua insalubre.

E fin qui, penserete, ci arriviamo tutti. Sono notizie conosciute, dati intuibili, informazioni ripetute fino alla nausea. Per non parlare delle campagne di sensibilizzazione, dell’istituzione di una giornata mondiale dell’acqua (22 marzo), dell’impegno da parte di testimonial più o meno noti per rendere il problema rilevante per chi i numeri li crea, non li analizza.

Sembrerà dunque ancora più banale affermare che per alcuni stati africani ed asiatici il problema non è solo la penuria d’oro blu, ma anche l’inesistenza di mezzi finanziari per distribuirla alla popolazione. Ovvio, scontato, risaputo. Eppure è difficile rendersi conto che in molti villaggi etiopi, somali, nonché in buona parte del Medio-Oriente, le donne percorrono ogni giorno circa 10 km a piedi per procurare alle proprie – numerose – famiglie qualche secchio d’acqua. Più o meno la stessa distanza che signore dalle tute firmate percorrono sui tapis roulant delle palestre alla moda.

La Commissione mondiale per l’acqua segnala che la quantità minima per soddisfare i bisogni essenziali di un essere umano sia all’incirca di 40 litri d’acqua al giorno. Ebbene, con 40 litri noi italiani facciamo la doccia ogni mattina. Se è vero che una famiglia europea consuma in media 165 litri d’acqua giornalmente, è ancor più vero che una famiglia africana ne consuma 20 litri, in alcuni casi meno. Negli ultimi anni il consumo d’acqua è aumentato globalmente di sei volte, ad un ritmo due volte più elevato del tasso di crescita della popolazione.

E quali sarebbero le soluzioni presentate finora? Grandi dighe, al centro di dibattiti per le pericolose implicazioni ambientali, e desalinizzazione che, oltre ad avere costi proibitivi, presenta forti controindicazioni dal punto di vista strettamente territoriale ed energetico. Un po’ come dire: “per far fronte al problema emergenza idrica aumentiamo l’offerta, invece di contenere e riequilibrare la domanda”.

Offerta, domanda: termini tecnici, vocaboli economici. Proprio così, perché quella per l’acqua non è una battaglia per il diritto ma una guerra per il potere. Una guerra discreta, silente, tacitata. Non viene combattuta con gli eserciti, non è alimentata dal fragore delle bombe: si decide nelle stanze silenziose di pochi grattacieli.

FMI, WTO, Banca Mondiale: i tre nomi che hanno il potere di scatenare una battaglia tra giganti, che calpestano quei fastidiosi moscerini dal nome diritto ed essere umano. Che sia il controllo sulle acque minerali, la battaglia per la gestione degli acquedotti, la costruzione di dighe o la privatizzazione dei bacini idrici, l’imperativo rimane uno solo: concorrenza.

“Se tu privatizzi Giacarta e Manila, io voglio Casablanca, Dakar e Nairobi, insieme a La Paz, Città del Messico e Buenos Aires”: sembrano queste le affermazioni, serrate tra i denti d’oro, di chi risica per non rosicare nel grande gioco della privatizzazione.

Non è un mistero che in alcuni casi il Fondo Monetario internazionale e la Banca Mondiale abbiano approvato la concessione di prestiti a paesi poveri in cambio della gestione dei servizi idrici a società private estere. Parliamo della Bolivia, delle Filippine, della Cina. Come a dire: “noi vi diamo i soldi, in cambio ci prendiamo solamente il controllo, esclusivo, della risorsa più importante che avete per vivere”.

E così, con il fallimento, volontario, della tecnica aumentano le previsioni catastrofiche sulla battaglia planetaria che si scatenerà per l’accesso all’oro blu. “Il whisky è per bere, l’acqua per combattersi”, sosteneva Mark Twain, e di fronte a dati tanto allarmanti sullo stato delle risorse idriche del pianeta, le tesi di osservatori internazionali, personalità politiche ed esperti di strategia sembrano confermare la riflessione dello scrittore statunitense.

Quello delle “guerre per l’oro blu” è un tema che si presta a catturare l’attenzione e le preoccupazioni dell’opinione pubblica, vista la sacralità che l’acqua riveste in molte società e culture. Eppure il discorso, presentato esclusivamente nei termini della crescente scarsità – e conseguente rischio di conflitti armati – risulta semplicistico.

La tendenza continua ad essere quella di raffigurare la situazione come immodificabile, apocalittica, evitando di porre l’accento sulle cause reali che hanno portato il pianeta sull’orlo del collasso idrico e che impediscono a un terzo dell’umanità di avere l’accesso diretto alle acque potabili.

“Dopo quaranta giorni si muore di fame, ma ne bastano meno di quattro per morire di sete”: quando un proverbio orientale diventa l’amara realtà.

di Martina Meoli

foto: Magnus Franklin

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