Impressioni di scena. Un incontro con Maximilian Nisi

Maximilian Nisi, classe 1970 ma esperienza teatrale millenaria, è un “attore dentro”, di quelli che, quando entrano in scena, afferrano saldamente la mano dello spettatore e lo tirano con loro nel pieno del dramma, lo trasportano immediatamente sul palcoscenico, accanto al personaggio cui danno vita.

Interpretazione. È la parola che preferisco, a teatro. E Maximilian interpreta, entra nel personaggio, ci si accomoda, lo restituisce vero, vivido, con i suoi pregi ed i suoi difetti, con le sue grandiosità e le sue piccolezze, con i suoi drammi e le sue leggerezze. Anche chiudendo gli occhi ti rendi conto che è entrato in scena: una voce profonda e cangiante, la sua, sempre perfettamente misurata sul personaggio, cadenzata nelle giuste pause; una voce che contribuisce a caratterizzare, a dare vita. La musicalità calibrata dell’espressione verbale è un’arte affascinante e difficile. Lavorano le corde vocali, lavora il diaframma, lavora soprattutto l’anima dell’attore che si adagia su quella del personaggio.

La sua esperienza teatrale è vasta. Attore drammatico, uscito dalla scuola di Strehler e dal corso di perfezionamento di Ronconi, in più di vent’anni di carriera si è cimentato con grande bravura in testi difficilissimi, sia come protagonista, sia affiancando attori del calibro di Glauco Mauri, Gabriele Lavia, Massimo De Francovich, Corrado Pani. Il suo repertorio va dai classici greci e latini a Shakespeare, da Goethe a Pirandello, fino ai contemporanei.

Nel suo immediato futuro c’è l’Edipo Tiranno di Sofocle ed Un Autunno di Fuoco di Eric Coble, insieme alla bravissima Milena Vukotic (con lui nella foto). Di questi progetti ci parlerà lui stesso, poiché ho avuto il privilegio di incontrarlo durante le repliche de Il Piacere dell’Onestà. Parlo di incontro e non di intervista perché la nostra è stata una lunghissima, meravigliosa chiacchierata sul teatro, sullo spettacolo, sull’essere attore e sull’essere pubblico. È un incontro, dunque, quello che vado a descrivere.

Maximilian Nisi con Milena Vukotic

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Roma, venerdì 20 aprile. Appuntamento al teatro Quirino. Sono le sei di pomeriggio; lo spettacolo non inizierà prima delle nove. Maximilian mi raggiunge nel foyer per condurmi in camerino. Dopo aver varcato una prima porta, usualmente “proibita” al pubblico, ed aver salito pochi gradini, attraversiamo il palcoscenico, dietro le scenografie. Maximilian ha un passo leggero; si percepisce la familiarità con quelle assi di legno. Per me è diverso. Ogni volta che mi capita di salire ai camerini del Quirino per salutare un attore amico, nei miei passi si riverbera l’emozione, come un tamburo silenzioso che scandisce quell’ingresso nel tempio della prosa. Ancora una scala, un corridoio e siamo arrivati. Se, invece di un articolo, stessi scrivendo un copione, le mie parole disegnerebbero la scena con pochi tratti, lasciando al dialogo le emozioni. Camerino di Maximilian Nisi. Grande specchiera e ripiano colmo di oggetti. Abiti di scena. Tre sedie.

Non ti nascondo che il camerino ha un fascino particolare, per me. Sono combattuta tra il mantenere l’imperturbabile serietà professionale della giornalista ed il cedere allo stupore, sgranando gli occhi. Il fruitore del messaggio artistico vive il camerino come il luogo della trasformazione, della magia del teatro …

Il fatto di accogliere una persona nel proprio camerino è sempre una cosa piacevole, divertente, anche un po’ perversa, in qualche modo, perché nei camerini succede un po’ di tutto, diciamo; ma è anche una manifestazione di ospitalità autentica, perché il camerino non è altro che la casa di noi attori. A parte la trasformazione, che c’è quando uno si prepara per fare lo spettacolo, è un luogo di intimità dove ci proteggiamo quando ci sentiamo più vulnerabili, dove ci esaltiamo per un ruolo difficile; dove ci schiaffeggiamo moralmente davanti allo specchio quando pensiamo di aver lavorato male; ma è anche il luogo dove abbiamo la possibilità di accogliere gli amici e condividere momenti come quello che stiamo condividendo io e te in questo preciso istante.

Una casa per il personaggio e per l’attore, dunque

Esatto. Tu pensa quante anime teatrali sono passate in un camerino! Lo stesso palcoscenico, quante ne ha accolte. Adesso, per carità, non dico che uno avverte delle presenze, però bisogna sempre tener conto che in posti come questo, il Quirino ma anche tutti gli altri teatri antichi  – e l’Italia ne è piena -,  sono passate tantissime persone, tantissime anime che hanno cercato, in un momento storico, di centrare un autore, un testo, o raccontare un personaggio dandogli voce, che, poi, è esattamente quello che dovrebbe fare un attore: cercare di portare in vita dei personaggi che sono nati dalla fantasia e dalla sensibilità, dalla cultura di uno scrittore.

[Sono affascinata da quello che ha detto Maximilian. Mi sembra quasi di percepire l’essenza umbratile dei personaggi e dei loro interpreti aleggiare in teatro, mentre, in lontananza, una voce angelica canta “In sleep he sang to me, in dreams he came …”. Il Fantasma dell’Opera. Il canto lentamente svanisce.]

Mi viene in mente la presentazione del mio primo libro: Monica Guerritore lesse uno dei racconti e scoprii con grande emozione che quei personaggi, quelle anime uscite dalla mia penna, avevano una vita anche fuori da me.

È la nostra funzione, diciamo; è la nostra missione. È anche la nostra dannazione, a volte, perché capita di non riuscire a penetrare profondamente l’anima del personaggio, vuoi per mancanza di sintonia, o vuoi perché ti trovi in certi contesti personali per cui allontani quella figura che ti suscita disprezzo o persino spavento. E devi lavorare moltissimo per riuscire a conciliare il tuo stato d’animo con quello del personaggio, per trasformarti, attraverso la comprensione della sua anima e, ovviamente, attraverso il trucco.

[Sulle parole di Maximilian immagino Canio che veste la giubba ed infarina la faccia mentre Arlecchino gli invola Colombina]

Devo dire, però, che il personaggio lontano spaventa meno della mediocrità che si riscontra in questo momento storico, anche nel mio ambiente. Sempre più spesso, capita che ti venga detto “un pochino meno”, “non fare troppo”, oppure “buttala via”. Non sono richieste che attengono alla calibrazione dell’enfasi, ma all’approfondimento del personaggio. Oggi è sempre più frequente che ti chiedano di non approfondire, il che contrasta con l’essenza stessa della recitazione, sottrae sostanza sia al personaggio, sia all’attore. Allora hai la sensazione di essere una conchiglia vuota, al servizio, in maniera abbastanza sterile, di un progetto tutt’altro che artistico. Il nostro lavoro è un altro; è quello, come dicevi tu, di rendere vive le parole di uno scrittore, di un drammaturgo. Io voglio assolutamente avere un’anima anche in palcoscenico; per questo mi muove una costante ansia di superamento, la fatica quotidiana, la ricerca della poesia, della follia, della magia del mio lavoro.

Il senso della vita, alla fine, è dato da tutte queste cose insieme

È la nostra vita. È la mia vita!

A proposito di risveglio dei personaggi alla vita, nel percorso dal “tavolino” al debutto, come e quando Maximilian Nisi si rapporta con il personaggio?

Di sicuro non lo lascio a teatro. Non è che io subisca un transfert particolare, ma il personaggio, per me, diventa un amico, una persona con la quale si va a convivere per un periodo più o meno lungo. Con il personaggio ci si incontra, ci si annusa, si trovano le cose in comune o le differenze, come dicevamo prima. Io me lo porto a casa; ci litigo, lo amo; me lo porto addosso persino dopo la fine dello spettacolo, perché mi ha insegnato qualcosa di lui e, nell’insegnarmela, mi ha anche un po’cambiato. Del personaggio dobbiamo imparare a capire le ragioni, persino quando sono dei torti.

[I suoi occhi sprizzano luce mentre parla del suo rapporto con i personaggi, delle tante vite che è chiamato a vivere. È una luce cangiante come le espressioni del suo volto, sul quale transitano gioia, dolore, passione, paura, stupore, divertimento. È come assistere ad una prova privata di cento ruoli diversi. Osservo lui ed il suo riflesso nello specchio. L’immagine fotografica di questo momento è un’icona della duplicazione dell’io che caratterizza l’attore]

A dire il vero, io penso costantemente al personaggio che mi vive a fianco; quando sono fuori dal teatro cerco di tenermelo vicino, di studiare il suo mondo anche attraverso le letture che faccio e le mostre d’arte che vado a vedere, tutte orientate nella stessa direzione storica e geografica del testo che sto affrontando.

Sotto certi profili, c’è quasi un collegamento medianico con i personaggi. In un mio recente saggio di storia criminale ho avuto modo di parlare di personaggi coinvolti in famosi delitti, come Cesare Borgia, Beatrice Cenci. Ebbene, io, in quei giorni, vivevo nel Rinascimento romano, in una costante proiezione all’interno di una persona estranea chiamata ad essermi amica o nemica, comunque intima …

È un cibarsi di un’altra vita, esorcizzando, in qualche modo, gli aspetti della nostra, che un po’ ci destabilizzano. In un paese straniero, non mangerò piatti internazionali, ma mi immergerò nella sua cucina tradizionale, scoprendone i segreti, gli ingredienti, i sapori … In teatro avviene esattamente la stessa cosa.

Tu cucini bene, immagino

Sì.

Si capisce da come ne parli: nelle tue parole c’è passione per il cibo

Il cibo è una forma d’arte e l’intreccio armonico degli ingredienti che sfociano nel trionfo del gusto assomiglia al lavoro degli attori in palcoscenico.

Tutto è teatro, dunque

Ahimè, sì. Gli attori hanno tre piani differenti per lavorare sui personaggi. Il primo riguarda la condizione fisica del personaggio; il secondo la sua situazione psicologica; il terzo la relazione che instaura con gli altri personaggi. È possibile incontrare colleghi che hanno fatto un percorso diverso dal tuo, ma non bisogna mai perdere di vista la musica insita nel fare teatro. Prendi, ad esempio, una chitarra, strumento meraviglioso. Se vai in Andalusia e senti il suono di quelle chitarre è fantastico …

[Il flamenco di Paco de Lucia si fa strada nella mia mente e fa da sottofondo alle sue parole]

Ma se ne rompiamo una contro un muro, questa produrrà un rumore e non un suono armonico. In teatro è la stessa cosa. Gli attori fanno musica nella loro coralità recitativa. Per questo è fondamentale la direzione, la regia, il principio d’ordine. Spesso sento dire che il teatro di regia ha ucciso i grandi interpreti. Non credo sia vero. In quanto allievo di Strehler, nasco dalla grande regia. La regia è l’occhio esterno di noi attori, è l’unico modo per accomunare sotto regole comuni i partecipanti al gioco del teatro, per far sì che condivisione e comunicazione funzionino.

Strehler, Ronconi e, ancor prima, nove anni di pianoforte. Il mondo dell’arte ti ha catturato da bambino

Direi proprio di sì. Del resto, un bambino che viene chiamato Maximilian, Pier Damiano (il secondo è il nome della clinica dove sono nato); che suona il pianoforte a cinque anni; che, sin da piccolo, viene portato a mostre, opere e spettacoli di prosa, è quasi un predestinato. Tanto che fa sorridere la sorpresa e l’incredulità di un genitore di fronte alla decisione di fare l’attore. In famiglia mi dissero che avrebbero preferito vedermi avvocato. Mi avessero portato almeno una volta in un’aula di giustizia l’avrei capito, ma dopo essere stato nutrito di arte era difficile che mi venisse in mente una cosa del genere! Ho, dunque, intrapreso la strada del teatro. Poi ho incontrato le persone illuminate di cui parlavi tu, che mi hanno aiutato a studiare, a comprendere, ad amare questo mestiere. Ho avuto il privilegio di studiare e lavorare con i due più grandi uomini di teatro del Novecento, ed oggi non posso che sentirmi orfano. A parte qualche sporadica eccezione, quel modo di fare teatro non c’è più, purtroppo.

Nella tua creatività spazi in generi diversi. Io ti ricordo anche come Principe Azzurro …

Mamma mia!

… con Antonio Giuliani. C’è un “tuo” teatro, o ti senti “in parte” in qualunque ruolo?

Lo spettacolo a cui ti riferisci è Che fine ha fatto Cenerentola?, con la regia di Enrico Maria Lamanna. Fu una mia provocazione, in un certo senso. Ero da poco stato il protagonista de L’uomo che vide Francesco d’Assisi, diretto da Krzysztof Zanussi, e del Billy Budd, diretto dal grande Sandro Sequi, ruoli molto diversi tra loro ed assai impegnativi. Ricordo che mi venne detto da alcuni produttori che non mi prendevano in considerazione per ruoli leggeri perché ero un attore impegnato. Non mi piacque questa etichetta, così accettai la prima proposta “ludica” che mi è arrivò dal produttore di una fiction che avevo appena terminato di girare per Mediaset, Il Bello delle Donne. Devo dirti che mi sono anche divertito e che ho saputo divertire. Inoltre quello spettacolo mi fu utile, perché si accorsero che sapevo anche cantare e venni scritturato per il Don Giovanni all’Argentina. In conclusione, non c’è un genere, ce ne sono mille … c’è il teatro. E cos’è il teatro se non il luogo dove è possibile mettere il proprio corpo, la propria voce, i propri mezzi espressivi al servizio di un testo? Certo, ci sono spettacoli che io ritengo più gratificanti, ma un attore deve sapersi muovere in ogni genere. Qui in Italia non tutti la pensano come me. Lo scorso anno ho portato in scena, contemporaneamente, Fiore di Cactus e Visiting Mr Green. Alcuni “addetti ai lavori” mi hanno criticato per questo. La prima è un’esilarante commedia parigina di cinquant’anni fa che non ha mai cessato d’essere rappresentata nel mondo; una pochade dai ritmi serrati, un gioco di equivoci, o, meglio, di menzogne, nel quale è difficile che il pubblico non possa in qualche modo ritrovarsi. L’altro, invece, è un bellissimo testo americano che ho avuto la soddisfazione di interpretare per la prima volta in Italia, con due mostri sacri del nostro teatro, Corrado Pani e Massino De Francovich.

[Mentre parla rivedo con gli occhi della memoria alcune scene del loro Mr Green: i misurati movimenti di Maximilian, che riempie la scena senza invaderla, e la sincronia del duettare di due distinte bravure, ognuna completa eppure complementare all’altra]

Due grandi interpreti, hai ragione

Compagni di palcoscenico eccellenti e, nel tempo, veri e propri punti di riferimento, come lo è stata anche Piera Degli Esposti, con la quale ho avuto l’onore di recitare ne La Rappresentazione della Passione, per la regia di Antonio Calenda.

Quello che esprimi è un amore per i classici e per i grandi artisti del passato che, tuttavia, non esaurisce il tuo approccio al teatro. Maximilian Nisi guarda anche molto avanti, giusto?

Sì. A me piacerebbe avere un nuovo repertorio, sperimentare nuovi linguaggi e lavorare per un nuovo pubblico. Nei classici trovi tutte le risposte del mondo, ma penso che sia un fatto molto grave che nel nostro Paese il repertorio sia rimasto fermo. Abbiamo persone che scrivono; a me arrivano diversi testi da leggere, anche molto belli, ma i produttori ed i direttori artistici non li prendono in considerazione per mere logiche di mercato.

Parli delle avanguardie, dell’evoluzione e manipolazione del linguaggio?

Esattamente. Prendiamo, ad esempio, AnatolijVasiliev, con il quale ho fatto Edipo Re nel ruolo del titolo. Lui è un grandissimo pedagogo ed è un personaggio utopico nel suo modo di intendere il teatro. Però, una volta che ti passa addosso  – perché è come se fosse un camion –  tu sei felice di essere stato investito da quella personalità così potente.

Nel tuo immediato futuro non ci sono testi di avanguardia, ma c’è un duplice impegno che rappresenta quasi l’alfa e l’omega del teatro, poiché passerai da Sofocle ad un drammaturgo contemporaneo

Il 23 giugno, al teatro Olimpico di Vicenza, con Maria Letizia Gorga e GIPETO, sarò impegnato nell’Edipo Tiranno di Sofocle, accompagnato al pianoforte da Stefano De Meo. Affronteremo questo testo in maniera classica, perché, in quello spazio, gli accademici desiderano una completa aderenza al testo. Tornato da Vicenza, comincerò le prove di Un Autunno di Fuoco (The Velocity of Autumn), un testo di Eric Coble che, cinque anni fa, con grandissimo riscontro di critica e di pubblico, è stato rappresentato a Broadway da Estelle Parsons e Stephen Spinella. È un’opera che ho voluto fortemente portare in Italia e che andrà in scena al teatro La Contrada di Trieste con la regia di Marcello Cotugno. Dividerò il palco con una signora del teatro, Milena Vukotic. È un testo che parla del rapporto di una donna con suo figlio, ma anche del rapporto che ognuno di noi ha con il proprio corpo, che, inevitabilmente, muta con il tempo. Sono due progetti molto differenti, che vanno dall’inizio del teatro alla sua evoluzione odierna. È stato particolarmente gratificante trovare la complicità di un’attrice come Milena, che ha risposto al mio invito con vivissimo entusiasmo.

Sofocle, Coble ma anche il Pirandello di questi giorni. Il Piacere dell’Onestà, in cui interpreti Maurizio Setti. Pirandello descrive il tuo personaggio con cura. Non trovo un elemento che tu non abbia perfettamente messo in scena

Grazie! Mi intrigava essere diretto da Liliana Cavani. Mi sono divertito. Il teatro è la mia vita, la mia scelta. Come vedi arrivo sempre molto presto; spesso sono il primo ad arrivare e l’ultimo ad uscire. A volte, però, è anche un luogo che disprezzo profondamente. Accade così con tutti i grandi amori: quando ami molto una persona, a volte scopri anche di odiarla, perché, pur amandola, non ottieni da lei quello che, in profondità, desideri.

Odi et amo

C’è sempre ambivalenza nell’amore. Se io un domani dovessi fare la parte di Romeo  – ormai sono vecchio e non posso più farla, purtroppo -,  non racconterei solo il calore dell’amore, ma avrei il dovere d’interprete di raccontare anche il gelo del disamore.

Sicuro che tu non possa più recitare nella parte di Romeo?

Ho fatto personaggi vecchi da giovane, grazie al trucco teatrale; da vecchio, forse, mi concederò quelli giovani che all’inizio della mia carriera non mi sono stati proposti.

[Prepotenti, invadono la mia memoria le immagini di Nisi nel Miles Gloriosus di Plauto. Il trucco che lo incanutisce, la voce che si adagia sui toni più bassi di un uomo vecchio, la risata roca, la camminata instabile. Un personaggio lontano da lui, eppur vivo; una personalità che si intuisce dalle sue movenze, dalla sua voce ancor prima che dalle sue azioni e, dalle sue battute]

In conclusione, cos’è il teatro per Maximilian Nisi?

Il teatro è il luogo dove le leggi dell’arte si incontrano con la casualità della vita. È splendido riuscire ad interpretare dei personaggi vicini alla casualità della vita, creando la giusta tensione tra attore e spettatore e rendendo l’opera viva. A volte, invece, c’è troppa distanza: noi siamo lì, voi siete là.

[Ho sempre ritenuto il pubblico una parte essenziale del teatro. L’attenzione di Maximilian rivolta al rapporto tra attore e fruitore del messaggio artistico me lo conferma. È tradizione greca, del resto. Théatron da Theâsthai: guardare, essere spettatore]

È difficile per noi. In questo spettacolo, ad esempio, ho la sensazione che aperto il sipario, la gente non sia pronta ancora.

Non è così, secondo me. Quando tu e Tatiana Winteler entrate in scena, il pubblico si sente lì, nel salotto, come fosse arrivato in ritardo mentre due amici parlano. Entra nella storia mano a mano che dialogate, perché gli accadimenti si scoprono lentamente. Tutto è molto naturale.

È una scena non semplice, come tutte le scene che aprono gli spettacoli e che devono informare e predisporre il pubblico a ciò che vedrà. Voglio farti una domanda. Mi è ancora sconosciuta la risposta. Magari stasera posso utilizzare in scena quello che mi dici. Secondo te, Maurizio Setti, oltre a quello che ha scritto Pirandello, cioè che è un uomo elegante, un uomo di mondo che ama la vita, che tipo e? Perché decide di prendere parte a tutta questa storia? Lo fa perché si annoia? Perché non sa come riempire la propria giornata? O lo fa per amicizia?

Secondo me, la sua vicinanza a Fabio Colli è di dovere, per il rapporto che c’è tra cugini. Con Baldovino ha un rapporto amicale, quasi di ammirazione per quel suo filosofeggiare sulla vita, ma non è un’amicizia così pregnante da indurlo ad entrare in quel meccanismo un po’ perverso, diciamocelo. Secondo me, il suo porsi in questa storia è legato ad Agata. In qualche modo Maurizio non agisce per se stesso, per leggerezza, per vanità, per essere al centro dell’attenzione; agisce perché, in qualche modo, lui crede che il suo aiuto possa essere un bene.

Quasi per un senso di giustizia, dunque?

Giustizia, sì. Persino affetto, direi, partendo dal mio inguaribile romanticismo; affetto per questa donna che si ritrova in una situazione difficile in tempi che non perdonano

Quindi è un buono, fondamentalmente

Io l’ho letto così

È una persona buona. Ok, va bene. Stasera, in scena, penserò a quello che mi hai detto. Siamo sempre alla ricerca. Siamo anime dannate, in un limbo, con la sensazione di vivere perennemente in assenza di qualcosa. Tadeusz Kantor diceva che, in realtà … no, questa è una cosa molto triste e non si dice.

Dai, spara. Sono curiosa

Vidi una registrazione di un suo famoso spettacolo, La Classe Morta. Si trattava di una scuola che, in realtà, era una sorta di macchina del tempo, dove gli studenti, vecchi, con i capelli bianchi, truccati quasi da clown, con i vestiti polverosi, erano alunni impegnati costantemente in un valzer, un continuo giro, proprio come la vita, e portavano sulle spalle dei manichini di bambini che non erano altro se non …

… quello che loro erano stati …

… quello che erano stati in precedenza, esatto. Io ho questa immagine in testa e te la voglio semplicemente regalare, perché, secondo me, l’uomo attore non è altro che questo: indossa dei vestiti polverosi, ha mille anni e balla un valzer che non può che essere nostalgico. Sulle spalle ha quello che è stato, ma anche quello che sarà. Non volevo parlare di Kantor perché il suo è un teatro che parla di morte …

[Le sue parole si trasformano in immagini, dentro di me. Vedo gli attori de La Classe Morta, il banco di legno scalare, i loro volti truccati, quasi dei mimi che rappresentano il memento mori, come le maschere di Ensor]

Forse Kantor voleva dire che quella perfezione, quella pienezza che l’uomo cerca, che lo fa dannare e che non conosce, la conoscerà, forse, solo nel momento del trapasso. Un po’ come nel Faust.

Guarda come si intersecano le opere ed i concetti scenici …

È bello parlare di teatro. Ho detto cose che non ho mai raccontato, perché sarebbe stato inutile parlarti di quello che si può trovare in una biografia sul web o in altre interviste. Volevo un dialogo più autentico, più esclusivo. Per me è stato un grande piacere conoscerti. Ti ho vista appassionata e la passione va presa al volo ed incentivata. Non è possibile altrimenti, Io non ho ancora rilasciato interviste su questo spettacolo, ma, quando ho letto la tua recensione, mi sono detto “Che bell’anima! Voglio trovare un contatto con lei”.

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Sono le otto. Si avvicina il momento di andare in scena. Gli altri camerini si stanno animando. Chiudo il registratore, che mi aiuterà a ricostruire con precisione il dialogo, e saluto Maximilian, consapevole che, a breve, con i capelli leggermente imbiancati da una spolverata di trucco, vestirà i panni di Maurizio Setti e salirà in scena per creare una splendida magia. La magia del Teatro.

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