In questi giorni ha fatto molto discutere la frase detta dal Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca e rivolta al Presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi.
De Luca aveva pronunciato “quello che fece la Bindi è stata una cosa infame, da ucciderla”, riferendosi alla presa di posizione della Bindi, che lo aveva inserito nella lista dei “candidati impresentabili” poco prima delle elezioni regionali del 2015. Il Presidente della Regione si è poi scusato “riconfermando il suo rispetto oltre ogni volgare strumentalizzazione”.
Questo avvenimento ci fa riflettere. Può un Presidente di Regione dichiarare che il Presidente della Commissione parlamentare antimafia sarebbe “da uccidere”? È lecito o meno giustificare una frase del genere in una terra poi in cui chi combatte quotidianamente contro la mafia mette a repentaglio la propria vita? Si tratta solo di una frase inopportuna di troppo o c’è dell’altro?
Questo ci fa interrogare molto sull’evoluzione che il linguaggio politico ha subìto nel corso degli ultimi anni. De Luca non è, infatti, il solo ad aver utilizzato “toni forti”, anzi la lista dei “politicamente scorretti” è talmente lunga che sarebbe impossibile citarli tutti.
Nel 2003 Silvio Berlusconi era stato criticato per l’inopportuna battuta rivolta al tedesco Martin Schulz, in cui diceva: “So che stanno girando un film sui campi di concentramento nazisti, la suggerirò per il ruolo di kapò. Lei è perfetto”.
Altrettanto forti erano state le parole di Michele Giarrusso del Movimento 5stelle che un paio d’anni fa, rivolgendosi a Matteo Renzi, disse: “sarebbe da impiccare”, riferendosi alla polemica sul volo di Stato utilizzato per scopi privati dal leader Pd.
Ma non sono solo i nostri esponenti politici ad avere un linguaggio tutt’altro che rispettoso.
Nel 1999 l’allora ministro siriano della Difesa generale Mustafa Tlass chiamò il leader palestinese Yasser Arafat “figlio di 60 mila puttane”. Questo e altri suoi commenti infastidirono i palestinesi a tal punto che in migliaia scesero in piazza per protestare.
Negli Stati Uniti non sono stati da meno. “Spero che qualcuno ti violenti oggi” aveva scritto il candidato repubblicano Mike Krawitz alla giornalista di Daily Beast Olivia Nuzzi sul suo profilo Facebook. Aggiungendo poi: “Mi auguro che tu venga violentata da un profugo siriano”.
E come possiamo non citare Donald Trump, il neo presidente degli Stati Uniti che, durante tutta la campagna elettorale, non ha fatto altro che scagliarsi contro chiunque, con escalation significative contro donne e immigrati, alle quali non è sfuggito nemmeno il presidente uscente Barack Obama a cui aveva chiesto “il suo certificato di nascita” insinuando il suo non essere americano.
I tratti che il linguaggio politico ha assunto in alcuni momenti di questo inizio millennio sono importanti per connotare un’epoca e individuarne i passaggi culturali e politici fondamentali. Il politologo statunitense Murray Edelman già nel 1976 sottolineava come il linguaggio si definisse “politico” non perché usato dai politici, ma poiché fosse il linguaggio attraverso cui si esprimeva una relazione di potere. Affermava infatti: “La politica imprime al linguaggio delle caratteristiche specifiche che lo qualificano per l’appunto come politico”.
In comunicazione politica perciò interrogarsi sul linguaggio vuol dire interrogarsi sulla natura dei rapporti tra i suoi attori. C’è addirittura un termine che è stato coniato per indicare questo tipo di linguaggio, il “politichese”, ossia quel linguaggio politico difficile da decifrare, con costruzioni linguistiche basate spesso sull’allusione che rimandano a tutto un retroterra di pensiero per essere capite. Ma oggi si può parlare ancora di “politichese”?
Quest’ultimo sembra aver fatto un passo avanti. Ci si domanda allora se sia giusto accettare questa evoluzione in nome dell’articolo 21 della Costituzione che stabilisce il diritto di manifestare il pensiero liberamente in ogni forma, o se fin troppo spesso si rischia di avvicinarsi o cadere nell’ingiuria, calunnia, diffamazione, vilipendio, istigazione a delinquere, e via dicendo – tutti reati condannati dalla stessa Costituzione.
Critiche pubbliche e accettazioni private, in un mondo in cui si manifesta a gran voce lo sdegno sui social, ma poi si vota per chi si è pubblicamente criticato. Il futuro del linguaggio politico andrà sempre di più verso il “politicamente scorretto” o farà un’opera di pulizia lessicale per tornare a toni più pacati? Non ci resta che aspettare.
di Arianna Orlando
Fonte foto: Ansa, Leggo, Corriere
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